Non ho ancora detto la cosa che avrei dovuto dire per prima: Le città invisibili si presenta come una serie di relazioni di viaggio che Marco Polo fa a Kublai Kan imperatore dei Tartari. (Nella realtà storica, Kublai, discendente da Gengis Kan, era imperatore dei Mongoli, ma Marco Polo nel suo libro lo chiama Gran Kan dei Tartari e tale è rimasto nella tradizione letteraria). Non che mi sia proposto di seguire gli itinerari del fortunato mercante veneziano che nel Duecento era arrivato in Cina, e di là, come ambasciatore del Gran Kan, aveva visitato buona parte dell’Estremo Oriente. Adesso l’Oriente è un tema che va lasciato ai competenti, e io non sono tale…….A questo imperatore melanconico, che ha capito che il suo sterminato potere conta ben poco perché tanto il mondo sta andando in rovina, un viaggiatore visionario racconta di città impossibili, per esempio una città microscopica che s’allarga s’allarga e risulta costruita di tante città concentriche in espansione, una città ragnatela sospesa su un abisso, o una città bidimensionale come Moriana. Ogni capitolo del libro è preceduto e seguito da un “corsivo” in cui Marco e Kublai Kan riflettono e commentano….Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. Da qualche amico urbanista sento che il libro tocca vari punti della problematica, e non è un caso perché il retroterra è lo stesso. E non è solo verso la fine che la metropoli dei “big numbers” compare nel mio libro; anche ciò che sembra evocazione d’una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi. Che cosa è oggi la città per noi? Penso d’aver scritto qualcosa come un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci ad un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell’ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici che può produrre guasti a catena, paralizzando metropoli intere. La crisi della città troppo grande è l’altra faccia della crisi della natura. L’immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro. Ma libri che profetizzano catastrofi e apocalissi ce ne sono già tanti; scriverne un altro sarebbe pleonastico, e non rientra nel mio temperamento, oltretutto. Quello che sta a cuore al mio Marco Polo è scoprire le ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città, ragioni che potranno valere al di là di tutte le crisi. Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi. Il mio libro s’apre e si chiude su immagini di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono., nascoste nelle città infelici. Quasi tutti i critici si sono soffermati sulla frase finale del libro: “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. (Italo Calvino, Le città invisibili, Presentazione dell’autore, 1972).
Abbiamo scelto questo testo in relazione al dibattito promosso da questo giornale sul tema della ridefinizione degli spazi, anche alla luce dell’emergenza in corso. “Gente e Territorio” ha infatti aperto una sezione dedicata del giornale, chiamata “Il controllo dello spazio”.
Calvino ci dice che oggi (1972!!) ci si sta avvicinando alla crisi della vita urbana, che la distruzione dell’ambiente naturale è un pericolo incombente e che i grandi sistemi tecnologici mostrano una sempre maggiore fragilità. Siamo nel 2020 e le considerazioni del brano sono più che mai attuali, anche se il fatto che siano passati così tanti anni da allora ci conforta sulla velocità di progressione dei tempi. Tuttavia, l’emergenza Covid ha aggiunto nuove questioni (il distanziamento sociale, il lavoro a remoto) il che obbliga ad ulteriori riflessioni anche in prospettiva. Bisogna trovare o dare nuova forma a nuclei di città felici che sono nascosti nelle città infelici. Costruire una nuova normalità urbana ripensando gli spazi della convivenza.
Cosa chiediamo dal nostro Angololettura. Che si cambi la forma ma si preservi l’originaria funzione e sostanza dell’urbs. Intesa più che mai come luogo di incontro e solidarietà della civitas che si è formata nel tempo e con il tempo della sua storia.