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Dall’Albania una lezione di umanità

by Luca Rampazzo
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Albania medici

Noi stiamo combattendo un nemico invisibile. Noi non possiamo tenere un esercito di riserva in attesa che siano chiamati, mentre in Italia si stanno curando anche albanesi ed hanno un grande bisogno di aiuto. Noi non siamo ricchi ma neanche privi di memoria, non abbandoniamo mai gli amici in difficoltà. Questa è una guerra che non si vince da soli. L’Italia vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e il mondo intero”.

Un discorso da brividi, quello del Presidente Albanese, che raccoglie l’essenza della storia di due popoli che si sono sfiorati, toccati e uniti più volte negli ultimi mille anni. Abbiamo una storia che è corsa parallela a lungo, ma non abbastanza da diventare estranea. È anche una storia che sfida le convenzioni, dove chi chiude i confini e chi accoglie non sono sempre gli stessi. Una storia che forse vale la pena ricordare più spesso, perché loro, i nostri amici Albanesi, non l’hanno dimenticata.

Le parole hanno avuto vasta eco. Ed anche chi, fino a non molto tempo fa, non aveva particolarmente in simpatia il paese delle Aquile si è dovuto ricredere. Siamo, dopotutto, una nazione di sentimentali. Ed anche l’invincibile cinismo di cui amiamo talvolta rivestirci si scioglie di fronte ai gesti minimi. Il presidente Rama, che è persona esperta, lo ha ricordato: non saremo noi a cambiare l’esito della battaglia. Questo è un gesto di amicizia. E forse è stato questo il cuore della vicenda. In Italia non mancano medici. All’Italia manca il calore umano delle nazioni che ci aiutino. Che riconoscano il dolore, che soffrano con noi. Manca quindi, etimologicamente, l’empatia.

Per questo i medici Cubani o le mascherine Cinesi vengono percepiti come aiuti ed i cento milioni stanziati da Trump no. Tra cinque anni, se chiederemo ad un campione di persone chi ci abbia aiutato nell’emergenza, la prima risposta sarà nessuno, ma al secondo posto troveremo, secondo me, l’Albania. Questo gesto che per loro è un sacrificio (sono anche loro nella linea del fuoco), ma che fanno col cuore ne moltiplica il valore percepito. Ed è anche un bel gesto.

Mentre nelle fredde sedi dei poteri finanziari, così almeno il popolo le percepisce, si discute degli zero virgola, si contano i soldi, si fanno piani di spartizione del rischio, qui è successo un miracolo. Un piccolo paese, che tante volte abbiamo vilipeso (accolliamoci tutti le colpe dei peggiori tra noi) ha deciso che non l’odio, il rifiuto o il disprezzo si sarebbero ricordati. Ma l’accoglienza che questa terra spesso, negli ultimi cinque secoli ha riservato loro.

È una scelta da grande paese. Non da piccola nazione. Perché solo i grandi possono permettersi di perdonare. Una grandezza d’animo prima di tutto. Di chi ricorda quando, a novembre, con una crisi economica che già si delineava, quando ci fu il terremoto a Durazzo, le forze internazionali che arrivarono avevano il tricolore al braccio. Che non ha dimenticato chi diede le basi per salvare il Kosovo dal genocidio. E che, invece, ha deciso di perdonarci per gli episodi del 92 e del 96. Dandoci così una grande lezione.

Oggi, troppo spesso, la gente ragiona come se fossimo diventati un piccolo paese. Vedendoci minacciati ovunque. Passando di conseguenza ad una aggressività di riflesso da persona nell’angolo. Ecco, forse questo discorso potrà essere utile anche a loro: non avere sempre rapporti di buon vicinato non è una buona scusa per dimenticare le buone maniere. O l’umanità, se è per questo.