Avevo preso impegno con il Direttore di questo giornale di scrivere qualche articolo su quel che pensava e faceva in tempi di “quarantena” collettiva e generalizzata – con i relativi e necessari disagi utili a tutti – uno… come me. Sì, uno vecchio abbastanza ma non troppo, cioè abbastanza “agè” – come dicono con maggiore buona grazia i nostri cugini Francesi – da capire che l’avvenire è ormai da un pezzo dietro le sue spalle. Ma non (proprio) già rincoglionito in una senescenza vissuta senza interessi, se non quello predominante del proprio sempre più piccolo mondo. E quindi il mio direttore voleva sapere e far sapere ai lettori come un tal tipo di cronista d’antan vedeva e viveva questa crisi epocale, questa Quarantena, collettiva come la Paura che sotto sotto attanaglia tutti, chi più chi meno. E che si avvia a diventare una… “Ottantena”!
E qualche giorno fa gli ho scritto l’articolo richiestomi, il primo di una breve serie che gli proposi grazie all’ottimismo in me nascente anche dal lavoro di ricercatori del calibro dei Napoletani Prof. Ascierto e Prof. Montesarchio. Un lavoro prezioso portato avanti con i loro validissimi collaboratori e in via assolutamente sperimentale e circoscritta ad alcuni pazienti, una decina, degli ospedali napoletani Pascale e Cotugno. Da qui l’adozione da parte dell’AIFA, l’autorevole Agenzia Italiana del Farmaco, del protocollo messo a punto da un’équipe napoletana presso il più napoletano degli Ospedali, l’ospedale Cotugno. ‘O Cutugn, ut sic, per i Napoletani.
Un ospedale glorioso, ritornato alla ribalta ma risalente al 1884 e intitolato a un uomo del Sud, Domenico Cotugno, di origini contadine. il nostro Mimì, inurbatosi a Napoli da Ruvo di Puglia, quando era Re di Napoli Don Carlos di Borbone, si laureò giovanissimo presso la Scuola medica Salernitana. E in breve divenne Primario superando addirittura il proprio maestro nel Concorso bandito dalla Corte Reale.
Un fenomeno insomma, che visse a lungo da medico di Corte fortunatamente per Napoli, dove si diceva che… si poteva morire soltanto a condizione che il prof. don Mimì Cotugno lo permettesse.
La notizia che mi infondeva ottimismo però risiedeva nel fatto che questi medici napoletani in piena emergenza avevano agito con coraggio visionario fecondo, sperimentando il protocollo medico di intesa con una équipe cinese già interessata al problema in quel di Wuhan.
Il problema del Covid-19 era visto però da entrambe le équipes nella stessa prospettiva di lucida e geniale obliquità che di seguito vi illustro concisamente.
Insomma, questo esperimento cino-napoletano ha acceso serie speranze nel mondo scientifico per avere “connesso” la cura delle complicazioni derivanti da alcune patologie tumorali con quella principale polmonare, innescata dal Corona Virus Covid-19, spesso con esiti letali per i malati.
Ebbene, attraverso il ricorso al farmaco Tocilizumab della Roche – utilizzato normalmente per i danni da complicazioni indotti ai polmoni di certi malati di cancro dalle stesse cure anticancro – si è intuita e sperimentata sul campo l’efficacia di un uso alternativo e imprevisto nei processi degenerativi polmonari indotti dal Covid-19, spesso gravi, a volte fatali.
Mutatis mutandis, ricordo al Lettore che nella Storia della Medicina anche altri farmaci sono stati usati con successo per organi diversi da quelli per i quali erano stati originariamente prodotti. Una vicenda non drammatica, ma in effetti simile, è stata alla base del successo planetario del Viagra. In verità, con qualche malcapitato mio interlocutore del WEB, ignorante e diffidente verso la “scoperta” napoletana, io in rete sono stato molto più esplicito. Come il cavallo sfrenato e scalciante simbolo di Napoli, senza morso e senza bardature. In questo articolo non lo posso essere e qui mi taccio, altrimenti il Direttore mi censura. E poi è peggio.
Ma almeno così mi son fatto capire dal Lettore. Insomma, almeno ho fatto l’occhiolino.
E l’articolo lo posso chiudere qui. Alla prossima, con l’ottimismo di chi ripete spesso a se stesso:
CE LA FAREMO.