Che i gas di scarico delle navi costituiscano una fonte significativa di inquinamento atmosferico sembra essere fuori dubbio. Ma cosa si intenda per “significativa” non è del tutto pacifico. A dare un’occhiata alla letteratura scientifica, si rileva che il trasporto marittimo internazionale contribuirebbe per circa 2-3 punti percentuali alle emissioni globali di gas a effetto serra. Con impatti concentrati sulle regioni costiere. Ed è un settore in forte crescita.
Uno studio condotto da Transport & Environment ha rilevato che la sola Carnival Corporation, il più grande operatore al mondo nel settore crocieristico, ha emesso nel 2017 sulle coste europee circa 10 volte più ossidi di zolfo rispetto ai 260 milioni di auto europee. Spagna, Italia e Grecia sono i paesi più esposti. Barcellona, Palma di Maiorca e Venezia le città portuali più colpite.
In questo quadro, l’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha adottato, a partire dal primo gennaio 2020, il limite dello 0,5% di zolfo per il carburante delle navi. Contro il 3,5% consentito prima. Nelle aree a controllo delle emissioni (ECAs), già dal 2005, il limite è dello 0,1%. Inoltre, anche la UE ha imposto a tutte le navi ormeggiate o ancorate nei porti europei di utilizzare combustibili con un tenore di zolfo inferiore a 0,1% in peso.
I dati più recenti dimostrerebbero che i nuovi limiti comporteranno una forte riduzione delle emissioni di SO2, di particolato (PM), di composti organici e di metalli. Tuttavia, alcuni studi avrebbero evidenziato che l’uso di questi carburanti può comportare emissioni di PM costituite principalmente da piccole particelle e con un contenuto più elevato di carbonio elementare.
Gli armatori, fatti due conti, protestano. Passare a carburanti più puliti, infatti, aumenta i costi. La Camera internazionale di navigazione stima 600 dollari per tonnellata di olio combustibile a fronte degli attuali 400. Un terzo in più.