E’ andato in scena, alla Sala Assoli, il dramma di Enzo Moscato: Festa al celeste e nubile santuario. Approdato nel teatro dei Quartieri dopo il successo ottenuto al San Ferdinando. Protagoniste di questa edizione sono state Cristina Donadio, Lalla Esposito e Anita Mosca, con Giuseppe Affinito. L’azione consta di due tempi ben diversi tra loro.
Nel primo, vengono presentate le tre sorelle. Elisabetta, che rivendica il potere sulle altre per diritto di primogenitura, garante della devozione e dell’onore incontaminato della casa in cui nessun uomo deve mettere piede. Anna, ben diversa. Curiosa e interessata al mondo maschile di cui sublima la mancanza immaginando visioni celesti, apparizioni dello spirito santo o di angeli che annunciano una buona novella sorprendente. Maria, l’ultima, costretta a subire le angherie delle altre. Muta per scelta, ma che sarà però “prescelta” per un nuovo miracolo dell’Incarnazione. Il tutto si svolge in un basso, povero e mal messo, pieno di stracci, di cui sembra quasi di sentire l’odore di chiuso e di violenza repressa.
Nel secondo atto la vicenda prende una piega decisamente noir. Le protagoniste, in particolare la più debole in apparenza, Maria, sovvertiranno gli equilibri preesistenti in un imprevedibile finale.
Quali sono gli elementi più significativi del testo, di cui Moscato cura anche la regia? Innanzitutto, la lingua. Che è un napoletano stratificato, con espressioni disusate o che ci sembra di aver ascoltato una volta dai nostri nonni. A cui si aggiungono espressioni moderne. Come il riferimento alla neve, possibile merce da vendere nel basso, come propone Anna, al posto delle povere cose esposte senza vero guadagno.
Le due attrici protagoniste dei dialoghi fino alle battute finali, dove interverrà Maria che si riprende la sua voce, sono di una bravura superlativa. Sanno trattare i contenuti e le variazioni del dialetto con incredibile padronanza. Cui si aggiungono le musiche sacre, con le canzoni da oratorio, uniche ammesse in quel tempio cristiano in cui hanno trasformato la loro casa. La gestualità, pur nella sovrabbondanza di segni della croce, ricorda le menadi folli che invasate da Dioniso cercavano l’accoppiamento sacro. Il tutto in uno svolazzare di cenci e veli da sposa.
Se il primo tempo sembra ricordare scene alla Eduardo, pur nella sotterranea presenza della follia, il secondo vede l’esplodere della violenza e della vendetta. Che si compie tra le quattro mura. Isolate dal resto della comunità. Che ha bollato come puttane e peccatrici le tre donne. E qui appare il Grand Guignol, il macabro e l’orrido, anche se non scorre una goccia di sangue. Tutto è nel testo, nelle parole e nei gesti, in cui le fantasie religiose diventano terribile realtà. Solo alla fine compare un uomo, apparentemente un povero disadattato, dalle scarse capacità mentali. Una marionetta nelle mani delle tre, oggetto del desiderio che si prenderà la scena ma non sappiamo se si riprenderà la sua vita.
Festa al celeste e nubile santuario (1984) è uno dei testi più significativi di Enzo Moscato. Che vi proietta non solo la sua gioventù vissuta ai Quartieri spagnoli, ma anche la sua preparazione letteraria e filosofica. Nonché il suo sguardo attento, direi antropologico, sulla realtà napoletana che assume caratteristiche universali. Il che ricorda i Ragazzi di vita di Pasolini.
Valore aggiunto è la recitazione di Cristina Donadio, la Scianel di Gomorra, attrice versatile e proteiforme. E di Lalla Esposito, che tiene testa con grande sapienza all’altra protagonista. Quanto abbia imparato del linguaggio dei segni la muta Anita Mosca è veramente notevole. Si fa capire come se sentissimo la sua voce che alla fine, quando riprenderà a parlare, sembra meno vera dei gesti iniziali.
Grande successo di pubblico. Applausi a scena aperta da parte degli spettatori. In un teatro piccolo, ma che si propone come Casa del Contemporaneo centro di produzione, abitato da più artisti, espressione di sensibilità molteplici dei processi artistici e culturali della contemporaneità.