Quindici giorni fa si è chiuso il Salone della Cultura. A molti di voi sarà sfuggito, forse. Ed è un peccato, è stato un progetto davvero fantastico. Tutti ricorderete la disfida del salone del libro, tra Torino e Milano. È stata la classica battaglia di campanile. Poi Milano ha deciso di costruire qualcosa di suo. E, nel mezzo di quella disfida tra iniziative contrapposte, è nato un altro evento.
Il Salone della Cultura, appunto. Dove, all’ombra dei libri digitali, rinasce l’amore per quelli fisici. Addirittura quelli di antiquariato. Con il profumo della colla, della carta che invecchia ed ingiallisce con dignità. Tutto nella città più moderna d’Italia. Che magnifico contrasto! Una scommessa così ben riuscita che quest’anno l’Associazione Italiana Editori ha patrocinato. Portando anche il nuovo. Con un trait d’union inedito: la corporeità.
A Milano tutto ha una dimensione fisica. Tangibile. Anche l’anima, incarnata dalla Madonnina, piccola, discreta, lontana, dorata. E fisicamente presente. Figuriamoci la cultura. Volete un esempio? Per almeno due anni il Piccolo Teatro, nel 2016 e 2017, ultimo anno di dati disponibili, ha avuto più abbonati di San Siro. Nel 2017 si sono superati i 300 mila spettatori. Sono numeri da capogiro, ammansiti con la consueta modestia Milanese dal nome del teatro. Il Piccolo, appunto. E non è certo trattato coi guanti bianchi: in Lombardia teatri, sale da concerto e altre strutture artistiche con 119 attività su 834 complessive pesano il 14 per cento sul totale nazionale. Milano da sola ne concentra 74. Quindi ci sono 73 competitor che lottano per un posto al Sole. Alla faccia della razionalizzazione. Forse la concorrenza fa meglio della pianificazione.
Volete una controprova? L’anno scorso, in questo periodo, uscivano i dati del Turismo a Milano. Li riportava così Il Giorno: business a Milano e area metropolitana da circa 8 miliardi, con 11mila imprese per 90 mila addetti, alberghi e ristoranti raddoppiati.
Cosa c’è di così straordinario? Che il turismo, in questa città, è figlio di accurata manifattura. È sintetico. Non c’è un elemento naturalistico ad attrarre. Banalmente, non ci sono mare e sole. Non c’è, a dire il vero, nemmeno più quella nebbia pervasiva e invasiva, figlia di clima ed industria. Ma di sicuro non abbiamo il Golfo di Napoli o il Vesuvio. La cucina è certamente di livello, ma non ha nulla di attrattivo. L’arte c’è, ma come in ogni altra città italiana. Il terreno, insomma, suggeriva altre attività. Non sicuramente il turismo. Eppure, con un’attenta attività umana di promozione, costruzione degli eventi, attenzione ai dettagli e marketing internazionale il deserto è fiorito.
Ecco, questo è il segreto. L’approccio alla vita, e quindi anche alla cultura, di Milano è di tipo industriale. Le risorse naturali contano, ma non sono determinanti. Quello che vince la gara è l’ingegno umano. E quando l’ingegno si trova di fronte a degli ostacoli. La cucina non è il massimo? Si risolve con la movida. Ovvero la gente che piace alla gente che piace, riunita in un solo luogo, vivo e vibrante. Il fatturato annuo di questo fenomeno si aggira sui 31 miliardi di euro sui 150 registrati in tutta Italia. Più indietro Roma a quota 27, molto più distanti Napoli (6 miliardi), Padova e Torino (4 miliardi ciascuna).
Milano è davanti a tutti anche per numero di addetti, 274mila circa su 3 milioni in tutta Italia. Roma si ferma a 240mila, Napoli a 133mila. Il capoluogo lombardo è terzo in Italia per numero di imprese: 42mila sulle 936mila presenti in Italia, quasi la metà rispetto a Roma (80mila) e molte di meno anche rispetto a Napoli (61mila circa). Perché non si dica che qualcuno viene lasciato indietro.
Ma è cultura questa? Certo che lo è. Non può esistere Apollo senza Dioniso. Lo pensava Nietzsche, lo confermiamo pure noi. Il turista assetato di cultura, la sera è assetato pure di cocktail sovrapprezzo. Chi si abbevera di giorno di Spirito, la notte cede agli spiriti.
E così torniamo ai libri del Salone della Cultura. Che è il condensato ed il sublimato di quanto detto sopra. Torino ha gli autori, la storia e la tradizione internazionale? Ah sì? Ce ne faremo una ragione. Noi abbiamo i numeri, la carta e siamo quelli che portano la pagnotta a casa:
“Per la prima volta Aie ci ha dato il patrocinio — spiega Matteo Luteriani, organizzatore generale della fiera ed editore di Luni Editrice — e presenterà una ricerca sullo stato del libro usato e di antiquariato: esiste un mondo dell’usato e fa girare denaro”. Secondo la ricerca di Aie con Pepe Research, il 27% dei lettori in Italia ha comprato almeno un libro usato nell’ultimo anno. Non solo libri di studio, ma anche saggi e romanzi.
La crisi ci ferisce, come industria culturale. Noi rilanciamo. Portiamo le idee, anche quelle del passato, anche quelle meno nobili al pubblico. E lo facciamo con charme Meneghino, mischiando il sublime delle edizioni rinascimentali, con il pragmatico dei romanzi d’appendice introvabili. Il digitale ha tradito la doppia promessa di infinita reperibilità dei titoli e di prezzi irrisori. Noi siamo qui per rivendicare quel territorio. E se altrove si piange per i fondi pubblici che mancano, qui si pianifica come sfruttare le falle nel mercato per rilanciare.
E così una città grigia ed industriale si scopre colorata, bella di notte, seria di giorno, cinica al punto giusto e romantica a comando.