Non è facile scrivere un romanzo giallo. Non basta scegliere un titolo alla Agatha Christie, inventarsi un ispettore di polizia un po’ ingenuo e pasticcione come Clouseau, creare una trama fitta di eventi sanguinolenti come in Seven, perché la macchina narrativa funzioni.
Stiamo parlando dell’ultimo romanzo giallo di Walter Veltroni: Assassinio a Villa Borghese. Ancora al diciottesimo posto tra i libri più venduti nella sezione Narrativa italiana (rilevazioni Gfk Italia dal 30 dicembre 2019 al 5 gennaio 2020). Già nell’immagine di copertina rimanda a tutto il bagaglio di conoscenze che, sul genere, un lettore di lungo corso possiede. Fa da sfondo alla figura dell’investigatore, rigorosamente in impermeabile e borsalino, il Globe Teahtre di Villa Borghese. Come in una location cinematografica, nella vicenda compaiono tutti i luoghi più importanti di questo grande parco pubblico, tra cui l’hotel Villa Borghese, che fu la casa di Alberto Moravia ed ora in totale abbandono.
La storia ruota intorno ad un ispettore superiore della Polizia di Stato, Giovanni Buonvino (vieni avanti, Buonvino, è una delle battute preferite da chi lo sbeffeggia) che sconta nella sua carriera un errore. Quello di aver inviato i Nocs alla festa di cresima del nipote del prefetto, anziché ad un summit di camorra, per un errore legato alla confusione toponomastica tra via Fratelli Cairoli e Via Fratelli Bandiera. Da qui la sua estromissione da qualunque operatività finché, per proteggere i frequentatori di Villa Borghese, la polizia non pensa di istituire un commissariato e lo affida a Buonvino. Dovete cercare i killer delle merendine. Invece una serie di efferati delitti, che sembrano avere un’unica regia, sconvolgerà la vita dell’ispettore e dei suoi uomini, per la verità anche loro sfigati, che dimostreranno sul campo la loro abilità. Un po’ come i Bastardi di Pizzofalcone.
Quello che rimane dalla lettura di questo romanzo breve è un senso di delusione. Non c’è originalità, tutto scontato o volutamente forzato, troppe le citazioni cinematografiche. Per esempio, l’ispettore ed un giovane reporter, che vorrebbe essere all’altezza dei paparazzi di via Veneto, dialogano in un ristorantino citando le battute del film C’eravamo tanto amati di Scola, beandosi della loro memoria di un film cult, quando i tre protagonisti (Satta Flores, Manfredi e Gassman) dialogavano e riflettevano sulla loro storia davanti ad una “mezza porzione”. Quello che stufa è proprio questo continuo ricordare i bei tempi passati, gli anni della giovinezza, gli anni d’oro della commedia all’italiana. La storia è andata avanti ma Veltroni non lo vuole sapere.
Il romanzo è in effetti un amarcord personale dell’autore, in cui la trama gialla serve più da spunto per rievocare luoghi e tempi del passato piuttosto che essere la vera spina dorsale del racconto. Forse è questo buonismo imperante (gli stessi assassini sono a loro volta vittime del loro passato) che mal si adatta al genere. Che nella tradizione anglosassone, ma anche in quella italiana degli ultimi decenni, ha trovato ben altre voci con ben altra capacità di coinvolgimento.
E’ indubbio l’amore per Roma e sicuramente l’attenzione per gli emarginati della vita, ma forse sarebbe meglio che, in un panorama così inflazionato di ispettori e commissari, anche in tonaca, il Buonvino di Veltroni tornasse tra i personaggi in cerca di autore.
Duro l’attacco di Michela Murgia: “L’unico assassinio è quello della letteratura e il colpevole non è il maggiordomo: è Veltroni”. La considerazione che ci sentiamo di fare è Quanto sei bella Roma… anche e soprattutto senza giallisti improvvisati.