Nella terna dei finalisti del Premio Napoli 2019, sezione narrativa, vi è il romanzo di Andrea Pomella, L’uomo che trema.
L’autore scrive su “il Fatto Quotidiano” on line, sulle pagine culturali dell’“Unione Sarda”, su “Doppiozero” e su “minima&moralia”. Ha pubblicato vari libri d’arte, tra cui I Musei Vaticani e Caravaggio. Un artista per immagini. Ha pubblicato inoltre i romanzi Il soldato bianco, La misura del danno, Anni luce, e appunto L’uomo che trema, finalista al Premio Napoli.
Anche per questo testo, che pure rientra nella categoria narrativa, è difficile stabilire una catalogazione tipologica certa. Non è un romanzo. E’ piuttosto l’uomo che trema che ci racconta il suo percorso di discesa nella depressione maggiore e la sua apparente guarigione o, per meglio dire, la tregua raggiunta nel finale. L’autore, che parla in prima persona, si guarda vivere con spietata e cruda lucidità, propria di chi è reso particolarmente sensibile da questa “malattia”. Tutti gli episodi della vita, piccoli o grandi che siano, sono letti ed esaminati senza pietismi verso sé stesso.
Il punto di non ritorno della storia personale di Andrea è il rapporto con il padre che lascia la famiglia quando il protagonista è ancora bambino. Al distacco incomprensibile dei genitori, il piccolo reagisce con il rifiuto del padre, lo uccide, con tutto quello che ne consegue sul suo equilibrio. Freud, Svevo, Kafka sono evidentemente pane quotidiano per l’autore. Anche il trattamento del tempo narrativo, con un continuo andare e tornare dai fatti più significativi della sua storia, non è una novità. Solo che ora nel testo prevale un rapporto moderno con il male. Oggi abbiamo gli strumenti culturali per riconoscere i segnali del disagio, abbiamo una maggiore frequentazione, anche se a volte un po’ spiccia, con la psichiatria, con la terminologia che essa adotta e con i farmaci con cui la depressione è tenuta sotto controllo. Andrea è esperto, giudica gli psichiatri che lo hanno in cura, sa dosare i propri farmaci, sa riconoscere i piccoli o grandi segnali del malessere che a volte controlla e che a volte invece esplodono. In questa sua lotta contro il male oscuro, Andrea ha due aiutanti: la compagna Grazia e il figlio Mario con cui costruisce un rapporto padre-figlio che lo aiuterà a capire tante cose del suo passato e tante da perdonare. Il tutto sullo sfondo di una Roma bella nei suoi angoli più riposti ed inesplorati ma spesso uggiosa e malinconica.
Scrittura di grande spessore intellettuale, l’autore padroneggia la lingua e ne sa utilizzare a pieno le potenzialità. Il finale non può che essere aperto, perché la guarigione non è mai definitiva ed il rischio di ricadute è costante. Ma attraverso la dichiarazione pubblica e consapevole della propria diversità nell’affrontare il mondo, si avverte il sollievo della presa di coscienza.
Il mondo mi spezza il cuore. È questa la verità, l’ultimo grado a cui riesco a ridurre la realtà. La domanda che adesso mi pongo non è «Perché sono depresso?», ma «Come fate a non esserlo tutti?».