Tra i grandi personaggi della carta stampata italiana Gian Antonio Stella è un riconosciuto maestro del giornalismo d’inchiesta, consacrato da “La Casta” in poi.
E Stella ha scritto sulle colonne del Corriere della Sera, a proposito dei fatti che commenteremo in questo articolo che la Sentenza di condanna con cui essi si sono conclusi potrebbe “far passare finalmente la voglia, ai soprintendenti di manica troppo larga, di dare la precedenza alle baracconate che odorano di soldi invece che alla custodia del nostro immenso patrimonio”.
La vicenda merita una riflessione. E l’azzeccato termine “baracconate” pure.
Stella si riferiva a un fatto verificatosi negli Scavi di Pompei nella “Stagione dei Commissari” straordinari, per il quale la Corte dei Conti ha emesso una sentenza di condanna per i danni conseguenti ai lavori eseguiti nel Teatro Grande di Pompei. Quattrocentomila euro di risarcimento dei danni procurati al patrimonio culturale pompeiano. Come dire un po’ a tutto il Mondo, se è vero l’assioma che Pompei appartiene al Mondo.
Diciamo subito che è una sentenza che “farà epoca” e costituirà termine di paragone per il futuro. Intanto inquadriamo la questione per il lettore. Eravamo infatti nel 2010, meno di dieci anni fa. Il Teatro grande di Pompei fu uno degli obiettivi prescelti per dare fiato alle trombe di una politica dei Beni Culturali che fu definita nuova, più aperta e aggressiva, adatta al Terzo Millennio. Il Teatro Grande pompeiano fu letteralmente aggredito con lavori tesi a soddisfare l’esigenza di realizzare presto la sua trasformazione in una location idonea a eventi musicali e non solo. La valorizzazione nell’immaginario commissariale puntava a un mix tra il San Carlo di Napoli e l’Arena di Verona, tanto per volare basso.
E fu affrontata con tecnici, operai e macchinari impegnati in un andirivieni forsennato fatto di slalom tra il colonnato e i muri antichi della Palestra dei gladiatori. Si eseguirono così decine di pozzetti di ogni tipo e dimensione e si stesero cavidotti di ogni genere nei tracciati eseguiti facendo trincee nel cuore dell’area archeologica. Una massiccia rete di sottoservizi destinati a formare le dotazioni tecnologiche del Teatro Grande pompeiano.
Nelle stanze del retroscena teatrale antico si stiparono a forza enormi containers d’acciaio contenenti motori e macchine alimentatrici di quell’ambaradan di reti tecnologiche, comprese le torri luce del teatro e dei camerini degli artisti.
Un autentico scempio ambientale sostenuto dalle esigenze della Tecnologia.
Oggi i containers sono ancora là, polverosi e dimessi, a ricordare quei momenti di travolgente deriva collettiva che solo una parte della intellighentia napoletana di quel tempo tentò di arginare. Con l’avanzare dei lavori del Teatro si pensò infatti anche a spazi aperti e coperti dedicati a “fumoir” e ad attesa per gli spettatori, ai quali si destinarono anche i locali chiusi per i wc e i guardaroba più capienti ricavati nei dedali angusti delle camerette in antico riservate ai gladiatori. Ma si sa: noblesse oblige…
E quando si pose mano alla scena del Teatro antico si fecero le cose in grande. E fu così anche quando si passò alla ricostruzione della cavea. I suoi gradini e gli spalti furono tutti ricostruiti in tufo giallo flegreo. Un materiale estraneo in antico e storicamente alla Pompei Romana e prima ancora alla Pompei preromana, caratterizzata dai grigi più o meno intensi del tufo nocerino e del basalto vesuviano o al giallo tenue e “traforato” delle pietre di Sarno. Si intese portare avanti così, con mano pesante da assaltatori, la Valorizzazione del sito teatrale pompeiano antico, come in un contesto di libero mercato cui alla domanda consegue la massimizzazione dell’offerta della location.
Bisognava fare presto i lavori e spendere in fretta le somme stanziate per la (ennesima) emergenza Pompei. Ma non doveva essere così. E – come già è successo in altri settori nell’italico stivale – è stata ancora una volta la Magistratura, stavolta quella contabile, a svolgere un ruolo di supplenza rispetto alla insensibilità degli Organi di governo, allora commissariali.
E alla acquiescenza di chi dalla sponda dei Beni Culturali doveva dare indirizzo o anche sbarrare la strada, all’occorrenza.
Ma su questo aspetto, pur rilevante, non intende soffermarsi questo articolo. Esso vuole piuttosto soffermarsi sul senso e sul valore della recente sentenza della Magistratura contabile, che ha indicato agli Uffici operativi dei Beni Culturali la strada della corretta azione di valorizzazione dei Beni Culturali per il futuro.
La Corte dei Conti ha scritto in Sentenza a chiare lettere che non tutto è ammissibile nella valorizzazione dei Beni monumentali. Lo ha fatto richiamando il Codice dei beni Culturali e fornendo con nettezza inequivoca l’interpretazione del termine “valorizzazione”.
Nella Valorizzazione deve essere garantito ed esteso il patrimonio della “Conoscenza” che ha valore universale, non monetizzabile, né sottoponibile a normali processi di mercato.
La Corte in questa sua sentenza esemplare scrive: “La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero ‘sfruttamento’ dello stesso per fini di natura imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica”. Più chiaro di così…
Alla luce di tale folgorante affermazione emergono dal chiaroscuro le zone grigie e le baracconate. Per molti cittadini, di cui interpretiamo il sentire, gridano ancora vendetta episodi come quello dell’archeomostro di Porta di Stabia a Pompei.
Staremo a vedere. Ormai è chiaro che la spettacolarizzazione fine a sé stessa diventa un danno per i Monumenti e per i Cittadini.