“Da quando nasce, ogni uomo porta con sé una pietra nella quale, inevitabilmente, inciamperà”.
Questa una delle prime battute del giudice Adamo, protagonista della commedia di Heinrich von Kleist, in scena dal 24 aprile al Teatro Mercadante.
L’opera è frizzante, colorata ma pregnante. La sua acutezza colpisce con tale leggerezza da minimizzare il peso della catarsi che si attraversa mentre la storia scorre sul palcoscenico.
Forse la simultanea tensione verso l’alto e il basso e la malinconia che si avvertono nella comicità di Kleist sono specchio della sua anima e di una vita non semplice.
Orfano di entrambi i genitori, fu cresciuto da un pastore luterano. Laureatosi in legge e in filosofia, diventò un burocrate, ma non gli bastava. Lasciando gli amici Goethe e Schiller, iniziò a viaggiare in Europa scrivendo opere teatrali di successo, ma la malattia prima e la reclusione poi – perché accusato di spionaggio dai francesi- lo portano ad impazzire e a togliersi la vita all’età di soli trentaquattro anni.
Anche se ricordato come il più importante drammaturgo del movimento romantico in Germania del nord, la sua vita fu caratterizzata dalla costante ricerca di una felicità illusoria, che si sente anche ne “la brocca rotta”, la cui trama è nata per caso.
Dopo aver letto a casa di amici una incisione “Le juge, ou la cruche cassée”, Kleist inizia con loro a fantasticare su questa frase. Dal confronto spensierato, genera una commedia piena di contenuti ancora, purtroppo, molto attuali.
Nell’Olanda di inizio Ottocento, il giudice Adam deve scoprire, insieme al suo cancelliere Licht e sotto la supervisione del Consigliere di giustizia Walter, chi ha rotto una brocca perché, dall’attribuzione della colpa di tale atto, dipende la salvezza dell’onore di Eva.
La ragazza è in procinto di sposare il suo fidanzato Rubert. Una sera, quando passa a salutarla, il ragazzo arriva nella stanza mentre qualcuno, fuggendo dalla finestra, rompe la brocca. Per Rubert, Eva lo ha tradito. Marta, la madre di lei, sopraggiunge in un secondo momento e, non vedendo altri che Rubert, lo addita per aver cercato di approfittarsi della casta figlia. Eva, l’unica che sa la verità decide di non parlare.
Dalle prime battute si capisce però che è il giudice Adamo, ubriaco, ad aver approfittato della ragazza e così, tutto quello che emerge in giudizio non fa che divertire lo spettatore.
Nonostante il senso di compassione e disgusto verso colui che è al tempo stesso un anziano stralunato e il rappresentante di una giustizia che non si pone mai sotto giudizio, si ride, pervasi da quella piacevole sensazione che si ha nell’ascoltare qualcuno mentire conoscendo già la realtà dei fatti.
Con tanta spensieratezza, ci si ritrova ad assorbire quelle verità che pochi hanno il coraggio di esprimere.
Nel giudice che procede senza rispettare la procedura prevista dalla legge, così come nella ragazza che non parla per paura di ripercussioni, emerge l’abuso di potere.
Ci viene ricordato che è quasi impossibile, per la verità processuale, aderire alla verità storica e che purtroppo ci sono eventi che distruggono cose tanto fragili quanto importanti – una brocca/l’onore- che non potranno mai più aggiustarsi, non importa quanto risarciti si sia o quanto tempo passi.
Difficile capire se sia di più la sapiente regia o il brillante cast a determinare la magia che si crea sul palcoscenico.
“Cos’è l’inganno? La domanda non offre una risposta immediata. È l’abilità di fornire false verità che procurano beneficio al bugiardo? A prima vista potrebbe sembrare un’adeguata definizione, ma riflettiamo: prestigiatori e mentalisti a volte devono usare l’inganno. Sono quindi dei bugiardi? La stessa cosa succede quando andiamo a teatro. Gli attori recitano una parte e quindi non sono onesti nel presentarsi per quel che non sono. Stanno mentendo anche loro? La risposta è ovvia. La casa della verità ha sempre due entrate”.
Con queste parole il regista Giuseppe Dipasquale ci introduce alla scena. “La brocca è rotta dal diavolo, ma il diavolo non si può processare. Il resto è solo una fragorosa risata”, ci dice ancora, riuscendo ad avvolgere nel mistero un epilogo già svelato.
Compare così Mariano Rigillo, che riempie totalmente il palco incarnando la figura del “giudice – uomo di legge”, essere umano che finge di essere inconsapevole del potere che detiene fino a quando sia necessario esercitarlo per occultare il diavolo che è in lui. Tutto accade sotto lo sguardo vigile di Andrea Renzi, che indossa alla perfezione i panni del Consigliere incorruttibile per mostrare l’altro lato della giustizia, e di Anna Teresa Rossini, esattamente madre nel difendere la figlia anche contro l’ovvietà.
Certo è che la commedia sia un mezzo per prendere pienamente coscienza di come siamo tutti inevitabilmente avviluppati nella tensione tra bene e male e per accettare – non scoraggiandosi, ma divertendosi – la naturalezza dell’ambiguità del reale, dove la verità esiste ed ha un colore: il grigio.