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Il napoletano a Capodimonte

by Piera De Prosperis
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Il Museo di Capodimonte non smette di stupirci, ascoltando sollecitazioni culturali diverse e dando voce anche a reconditi desideri di rivalsa regionale.

Infatti, sabato 4 maggio alle 10 nell’Auditorium al piano terra del Museo, la Fondazione Enrico Isaia e Maria Pepillo proporrà il primo incontro per studiare storia, fonetica, semantica, etimologia, morfologia e sintassi della lingua napoletana (appuntamenti successivi 12 e 18 maggio 2019). A questi incontri gratuiti (è sufficiente prenotarsi inviando una mail a [email protected]) seguirà un vero e proprio corso, a pagamento, in tre livelli a Palazzo Salerno Lancellotti di Casalnuovo tra giugno, ottobre e novembre 2019. Ci sarà quindi un approccio conoscitivo dell’argomento proposto e poi, per quanti saranno seriamente interessati, un vero e proprio corso di lingua napoletana. Tra gli argomenti in programma le etimologie da greco, latino, francese e spagnolo, prove pratiche di lettura e scrittura, poesia, canzoni, teatro e i grandi capolavori in napoletano. Ogni lezione prevede un intermezzo musicale a cura dell’associazione MusiCapodimonte con l’antica arte della posteggia napoletana di Aurora Giglio, che ha elaborato le regole presenti in questa antica arte, con riferimenti alle origini, alla tecnica vocale e strumentale.

Il secondo ciclo di lezioni, che costituisce un vero e proprio corso, si terrà a Casalnuovo, negli spazi che il Comune ha concesso alla Fondazione all’interno dello storico Palazzo Salerno Lancellotti. Per questa seconda fase è previsto un percorso completo tra giugno, ottobre e novembre: lezioni su tre livelli da cinque incontri ciascuno. Si studieranno semantica, etimologia, morfologia, sintassi, su testi che vanno dal Cinquecento al Novecento compresa la Canzone Napoletana.

Gli organizzatori dell’iniziativa ne rivendicano l’importanza con il fatto che l’Unesco ha riconosciuto lalingua napoletana come tale, includendola negli standard internazionali ISO per la classificazione delle lingue. Tuttavia, secondo l’Unesco la lingua napoletana è l’insieme dei dialetti alto meridionali, quindi i dialetti parlati in Campania, in Basilicata, in gran parte dell’Abruzzo, nel Molise, nella Puglia escluso il Salento, nella Calabria settentrionale, nelle Marche meridionali e nel sud del Lazio, quindi non il napoletano tout court. Questi dialetti hanno così tante caratteristiche comuni che possono essere considerate dialetti di un’unica lingua, il napoletano appunto.

Del resto, il nome di lingua napoletana è legato sia alla tradizione letteraria e musicale della città campana, sia ai lunghi secoli in cui la regione era governata dal regno di Napoli.

Ma dove possiamo andare a trovare le radici storiche dei dialetti, tra cui quello napoletano è quello che ha avuto più largo utilizzo? Dobbiamo risalire molto indietro quando, a seguito delle conquiste romane, le lingue dei popoli autoctoni divennero lingue di sostrato, cioè mantennero la loro oralità combinandosi con la lingua latina, imposta dai dominatori come lingua della burocrazia e della scuola. Per esempio quando Catullo (I sec. a.C.) scrive da mi basia mille, deinde centum, dein mille altera, dein secunda centum (carme 5), preferisce al termine classico osculum (bacio) quello più popolare e “dialettale” basium, che è poi passato nel nostro italiano. La normalizzazione del latino sulle lingue preesistenti fece sì che esse lentamente sparissero, mantenendo solo qualche caratteristica lessicale, legate ad usi e costumi locali.

Cade l’impero, le lingue locali si liberano ma rimangono lingue orali. Ci penserà il latino ecclesiastico a riportare norme e regole grammaticali. Le lingue orali continueranno ad arricchirsi di apporti provenienti dai vari idiomi dei dominatori che si succederanno nella storia d’Italia e del Sud in particolare (longobardi, bizantini, francesi, spagnoli) finché non arriverà la forza unificatrice dell’italiano imposto dal nuovo Regno d’Italia nel 1861.

Proporre quindi uno studio grammaticale del dialetto è un’operazione che ha scopi più “politici” che realmente di studio. E’ un po’ una rivendicazione culturale contro gli stereotipi dell’ignoranza meridionale. Ciò nulla toglie all’importanza del dialetto in sé, che non ha bisogno di regole, anzi rifugge da qualunque operazione di normalizzazione: da lingua viva, soggetta all’evoluzione dei tempi, ne determiniamo la morte.

Dice Luigi Meneghello in Libera nos a malo“: nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste … la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua”.