Fino a pochissimi anni fa parlare di Pompei antica nel Rinascimento sarebbe sembrata una bestemmia. “La scoperta di Pompei appartiene a Don Carlos di Borbone e al Secolo dei lumi” avrebbero gridato i benpensanti, allineandosi alla cultura dominante nella storiografia pompeianistica.
Noi siamo tra quelli che ne hanno parlato tra i primi, attirandoci la … indifferenza dell’archeologia togata. E lo rifacciamo ora dalle colonne di Gente e Territorio, affondando ancora di più i colpi al suo corpaccione immoto e autoreferenziale.
Entriamo quindi in argomento, ricordando il territorio che era stato una volta della Pompei Romana. Proprio quello che circa ottocento anni dopo l’eruzione vesuviana fu poi definito il “Pompìo campo” da Martino Monaco. Ebbene esso – dopo secoli di abbandono e oblio che avevano interessato, ma non cancellato, la memoria dell’antica Pompei – rimase vittima della politica affaristica e proto imprenditoriale dei Piccolomini d’Aragona e del Conte di Celano. Siamo nel pieno del Rinascimento, epoca in cui i fasti della Napoli aragonese tramontano in un mare di debiti della corona e condannano Napoli ad essere la capitale dimezzata di un Viceregno. Ecco quindi emergere una nuova nobiltà, meno guerriera e più affaristica, quindi più rapace di quella precedente.
Cominciò così un periodo nefasto anche per il territorio chiamato da secoli Valle, o Vallo, prima di venire denominato Valle di Pompei, dopo la scoperta della Città Romana sepolta dal Vesuvio. Quel territorio fu depredato delle acque del Sarno, il suo Fiume-Dio da sempre, che diventarono per la prima volta nella sua storia “acque nemiche”, diffondendo fame e malaria perniciosa. Il Canale Sarno e il Canale Bottaro vennero realizzati a pochi decenni di distanza l’uno dall’altro, tra il Cinquecento e il Seicento per portare le acque del Sarno negli insediamenti paleoindustriali nascenti per iniziativa della nuova oligarchia predatoria.
La realizzazione del Canal Sarno, detto anche Fosso del Conte e in breve Canalsarno, fu però – come ci raccontano dalla metà del Settecento – l’occasione per i primi ritrovamenti archeologici di Pompei fatti “dentro” la collina della Civita. Essa era stata infatti “traforata” dal Canale voluto dal Conte di Sarno Muzio Tuttavilla e realizzato da un architetto, Domenico Fontana, Ingegnere Maggiore del Regno di Napoli. Ma prima di tutto abile imprenditore. Le scoperte archeologiche effettuate sulla collina della Civita, su cui il Fontana stese comunque un velo opaco, furono però erratamente attribuite alle rovine di Stabia. E’ il caso di porsi una domanda. Perché?
Ebbene, questo fu l’orientamento degli esperti “antiquari” napoletani di epoca rinascimentale, i quali erano condizionati dalle teorie elaborate per il sito di Stabia dall’autorevolissimo umanista e storico nolano Ambrogio Leone, un gigante della Cultura dominante dell’epoca. Egli aveva ipotizzato la localizzazione di Stabia nel territorio sulla destra idraulica del Sarno, tra Scafati e Torre Annunziata. Cioè dove era in realtà Pompei. E solo pochi “eretici” continuarono a sostenere la presenza di Pompei là dove invece il “Leone nolano” aveva immaginato Stabia. Per tutti gli “eretici” citiamo Raffaele Garrucci, Accademico ercolanese che nelle sue pubblicazioni di “Questioni Pompeiane” afferma tra l’altro con grande coraggio e con onestà intellettuale: “…Quanta parte di Pompei ed in che tempo si sterrò prima del 1748 non può dirsi con sicurezza.”
Gli scavatori clandestini infatti continuarono tranquillamente a depredare Pompei di marmi, statue e oggetti preziosi. Essi si calavano negli strati eruttivi, scavando fossi, buche, piccoli tunnel, a volte con esiti nefasti, a causa di rovinosi crolli o di silenziose e letali mofete. Così si legge nei volumi dedicati ai primi scavi pompeiani, in occasione di ritrovamenti di cadaveri non risalenti al 79 d.C., ma a epoche successive. Questa pratica di predazione, durata per secoli – e non altro, comprese alcune annose e fantasiose tesi dell’Archeologia togata – spiega la penuria di statuaria pompeiana e la carenza di lastrame lapideo o marmoreo in sito, sia nel Foro, che nei Teatri, che nell’Anfiteatro, usati come cave a cielo aperto, da cui cavare anche pietrame calcareo, per farne calce viva.
Anche queste verità sono state a lungo – per centinaia d’anni – ignorate dalla Storiografia Pompeianistica. Ma vale la pena di squarciarne i veli, “hic et nunc”.
La verità “eretica” più ciecamente tenuta nascosta riguarda però il Canale Sarno e la sua effettiva datazione. Dopo la costruzione del canale Sarno ci fu chi infatti chi ipotizzò la presenza di un canale arcaico utilizzato da Domenico Fontana per farvi transitare le acque del Canale in costruzione. Ma si dovette aspettare il Settecento, quando lo stesso Garrucci affermò per la prima volta la ipotesi che costruendo il Canale Sarno si fosse “…rimesso in uso un antico acquidotto e non fabbricato uno nuovo”.
Nell’Ottocento fu addirittura il braccio destro dell’allora Direttore degli Scavi di Pompei Michele Ruggiero a rivelare le proprie idee “eretiche” a proposito del Canale Sarno, cui aveva dedicato studio e impegno fino a pubblicare ben due volumi su di esso.
Era l’ingegnere idraulico Domenico Murano, il quale rivelò che Domenico Fontana aveva attraversato l’antica Pompei utilizzando un preesistente “…acquedotto Osco e quel tratto che attraversa la antica Città di Pompei da Oriente a Occidente”.
Ma questo non bastò all’Archeologia togata, la quale ha preferito chiudere tutte e due gli occhi, piuttosto che aprirli alla verità. Cosa ci resta da dire, se non che sarebbe il caso di … rimettere indietro di duemilacinquecento anni la Clessidra del tempo per indagare seriamente le origini preromane di Pompei?