Il piano del governo per il clima, Piano nazionale integrato per l’energia e il clima 2030, ha ben poco di innovativo e va nella stessa direzione indicata dal governo precedente.
Balza all’occhio l’uso mistificatorio della parola: decarbonizzare. Non basta la parola! La Commissione Europea ha portato l’Italia in tribunale per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico e l’incapacità di proteggere i cittadini dagli effetti del biossido di azoto.
La concentrazione di anidride carbonica in atmosfera ha oltrepassato la soglia di 411,66 parti per milione (ppm) a febbraio 2019. L’Osservatorio di Mauna Loa, alle Hawaii, la più antica stazione di rilevamento di CO2 al mondo, ha registrato 412 ppm il 26 aprile 2017. Gli esperti del Met office (l’agenzia britannica per la meteorologia) avevano previsto questo record per maggio. Da settembre 2016 la CO2 ha superato 400 ppm in modo permanente.
Secondo i dati forniti recentemente dall’Agenzia europea dell’ambiente, l’inquinamento atmosferico, nonostante i miglioramenti registrati negli ultimi anni, “grazie alla crisi economica”, rappresenta un fattore di rischio, non solo per gli ecosistemi, ma anche per la salute dei cittadini, con particolare riferimento a quelli che vivono nelle aree urbane. Nel 2014 circa l’85% degli abitanti delle città dell’UE è stato esposto ad inquinamento da particolato (PM) a livelli ritenuti dannosi per la salute dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
L’esposizione agli agenti inquinanti quali il particolato (PM10 e PM2,5, c.d. polveri sottili e ultrasottili), il biossido di azoto (NO2) (NOX) e l’ozono provoca l’insorgere o l’aggravarsi di numerose malattie ed è responsabile di un numero elevato di morti premature. L’Agenzia europea dell’ambiente riferisce che nel 2013 il PM2,5 è stato causa di 467.000 morti premature in Europa, 430.000 delle quali nella sola Unione europea.
L’Italia figura tra i paesi dove gli agenti inquinanti relativi alla qualità dell’aria, superano le soglie previste dall’UE e dall’OMS, con un numero stimato di morti premature, che nel 2013 è stato di oltre 80.000 decessi ed è tra i paesi più a rischio. Le violazioni riscontrate si riferiscono al superamento dei valori limite di NO2 e di PM10 posto che in ampie aree nel territorio nazionale i limiti previsti ancora oggi non sono rispettati.
Non si può continuare a pensare di creare prosperità nel XXI secolo con le stesse tecnologie e categorie economiche dei secoli passati. Oggi è tempo di incoraggiare una nuova economia che favorisca la circolarità di beni e servizi, invece del consumismo e dell’inquinamento. Dobbiamo sostenere le imprese (soprattutto quelle di piccolo e medio taglio), che producono localmente creando posti di lavoro di qualità, invece di continuare a mantenere la grande industria distruttiva che elimina posti di lavoro mirando alla totale robotizzazione e che non paga mai il conto delle conseguenze ambientali e sociali delle proprie azioni.
I principali settori industriali del mondo (dalle grandi multinazionali dell’energia fossile e della produzione alimentare commerciale) distruggono più risorse naturali di quanto facciano profitti, per una perdita totale di capitale naturale pari a 7.3 trilioni di dollari. Secondo il Fondo monetario internazionale, le compagnie di combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) ricevono circa 10 milioni di dollari al minuto in aiuti statali, per un totale di 5.3 trilioni di dollari per anno. Il cambiamento del clima è stato identificato dalla rivista The Lancet come la principale minaccia alla salute globale.
Perché allora continuare a sostenere queste industrie con sussidi pubblici, pagati con le nostre tasse? Sono stati analizzati i settori primari di produzione e di trasformazione primaria, si è stimato che abbiano costi capitalistici naturali non valutati per un totale di 7,3 trilioni di dollari, il che equivale al 13% della produzione economica mondiale nel 2009. La maggior parte dei costi non capitalizzati del capitale naturale deriva dalle emissioni di gas serra (38 %) seguito dall’uso dell’acqua (25%), uso del suolo (24%), inquinamento atmosferico (7%), inquinamento terra e acqua (5%) e gli sprechi (1%).
Ancora. Secondo uno studio sugli effetti dell’inquinamento atmosferico sul fotovoltaico, il professor Michael Bergin, docente di ingegneria civile e ambientale presso la Duke University (Carolina del Nord, USA), l’inquinamento atmosferico sta riducendo l’efficienza dei pannelli solari e fotovoltaici. Il fotovoltaico risulterebbe fortemente penalizzato dagli agenti atmosferici che si depositano sulle celle fotovoltaiche limitandone la ricezione di luce solare. La produzione di energia rinnovabile verrebbe di conseguenza ridotta, causando inoltre un danno economico.
L’economia del futuro è un’economia del benessere. Un’economia dominata dalle piccole imprese, da una forma di artigianato post-industriale basato sulla resilienza, sulla tecnologia avanzata, sul lavoro intelligente che permetta di lavorare meno ma lavorare tutti e passare dal ruolo di consumatori a quello di coproduttori dei beni e servizi che si acquistano. Un’economia in grado di riallacciare i propri legami con la società e con gli ecosistemi naturali che sono la fonte primaria del nostro benessere.
E’ necessario ripensare completamente il sistema culturale, economico e produttivo, attuale, di sviluppo lineare ereditato dal secolo scorso, che destina prevalentemente a discariche, biodigestori e inceneritori risorse come i rifiuti. Si tratta di un cambiamento epocale che ci deve allontanare dall’economia neoclassica convenzionale per inserire nei nostri modelli di sviluppo altri aspetti oltre al “mercato”.
Stiamo regredendo, siamo incapaci di mirare ad un futuro migliore, stiamo continuando ad ignorare i problemi causati dalla bulimia di alcuni e l’incapacità di altri; stiamo distruggendo e affamando il Mondo. Il numero di persone che soffrono continua infatti ad aumentare e ha raggiunto quota 821 milioni nel 2017, in pratica un abitante su nove nel pianeta. L’allarme è lanciato in maniera congiunta dalle cinque agenzie delle Nazioni Unite: l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD), il World Food Program (WFP), il Fondo di emergenza per l’infanzia (UNICEF) e l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), che hanno illustrato i dati contenuti nel nuovo rapporto su “Lo Stato della sicurezza alimentare e nutrizionale nel mondo 2018”, presentato a Roma.
Tra le principali causedella crescita nella fame nel mondo, il rapporto punta il dito contro i cambiamenti climaticie i fenomeni estremi come siccità e alluvioni, insieme ai conflitti e al rallentamento dell’economia. Fattori che in alcune regioni del mondo hanno già colpito la capacità produttiva alimentare e, in mancanza di azioni, gli esperti si aspettano un aggravamento della situazione a causa dell’aumento delle temperature.
Occorre mutuare dal funzionamento degli ecosistemi naturali a ciclo continuo. Le piante sintetizzano sostanze nutritive, gli erbivori alimentano i carnivori, i carnivori producono importanti quantità di rifiuti organici che danno vita a nuove generazioni di vegetali. L’uomo NO. L’uomo produce scarti.
Serve un’economia che prenda spunto dalla “biomimetica”, il modo in cui funziona la natura, trasferendo l’analisi dei processi biologici dal mondo naturale a quello artificiale, “mimando” i meccanismi che governano la natura, che non produce scarti.
Serve un’economia capace di progettare beni prodotti senza immissioni in atmosfera, beni pensati per il riuso, la riparazione, il riutilizzo, il riciclo. Un’economia capace di sviluppare sistemi produttivi connessi in rete, quali la simbiosi industriale. La simbiosi industriale è uno strumento “relazionale” rivoluzionario, capace di chiudere i cicli delle risorse tramite lo scambio di risorse tra due o più industrie dissimili, intendendo con “risorse” i materiali (sottoprodotti o rifiuti), ma anche le fonti energetiche, i servizi, le esperienze. Tuttavia, le imprese e gli investitori possono tener conto dei costi di capitale naturale nel processo decisionale per gestire il rischio e ottenerne un vantaggio competitivo.
Oggi si parla di economia circolare, ma, gli stakeholder sono in agguato. I governi, le holding hanno deformato il cerchio in tante piccole rette tangenti ad esso, trasformando così l’economia circolare in lineare.
Economia circolare dovrebbe significare utilizzare le risorse a disposizione in maniera intelligente, ridurre l’impatto ambientale, abbracciare la sostenibilità, la resilienza; replicare il ciclo di vita dei prodotti donando ad essi una nuova vita. Il sistema economico attuale affonda le sue radici nel modello produci-usa-getta, che è diventato insostenibile. L’economia lineare prevede che un prodotto soddisfi un solo bisogno. Economia circolare significa, invece, aver rispetto per l’ambiente, riutilizzare, riciclare e rigenerare i prodotti rendendoli anche eticamente utili; far corrispondere ad ogni fine un nuovo inizio. Investire nel post-consumo non è più solo una filosofia, ma rappresenta un vero e proprio modello per una nuova rivoluzione industriale.
Insomma, l’economia circolare è il punto in cui natura ed economia dovrebbero convergere! Il piano d’azione dell’Unione Europea per l’economia circolare prevede che il valore dei prodotti, dei materiali e delle risorse si conservi quanto più a lungo possibile, riducendo in questo modo al minimo i rifiuti e il consumo delle risorse. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera Eppure la Direttiva 96/62/CE sulla gestione e qualità dell’aria ambiente dei Paesi dell’Unione Europea all’Articolo 1 individua tra gli obiettivi quello di “mantenere la qualità dell’aria ambiente laddove è buona e di migliorarla negli altri casi”.
E’ stato disatteso uno degli slogan più urlati in questi anni: chi inquina paga. Si aspettava l’attuazione, finalmente, della “carbon tax”, una tassa sul carbonio, una tassa sulle emissioni di CO2. Certo sarebbe stato bello “ardire” imponendo una tassa su carbone, petrolio, metano e altre attività altamente inquinanti egià acclarate nocive alla salute. La tassa avrebbe reso i fossili e le attività inquinanti più costose delle loro alternative e, conseguentemente, avrebbero avuto finalmente modo di competere e forse imporsi, mentre oggi competono in un mercato falsato, che mantiene i combustibili fossili artatamente economici, scaricando sulle popolazioni i costi esterni: malattie, guerre, danni ambientali e climatici.
Beh, ci eravamo sbagliati. Quando si è “governo” evidentemente si diventa proni e, chissà perché, non si riesce a sovvertire, e neanche a scalfire, l’ordine economico attuale.