Una notizia importante apparsa anche sulla stampa regionale e nazionale, in occasione delle manifestazioni del Maggio dei Monumenti napoletano del 2018 non ha ricevuto l’attenzione che meritava presso la pubblica opinione e presso il mondo equestre nazionale e internazionale. Dalle colonne di “Gente e Territorio” torniamo ora sull’argomento.
Nell’incontro che si tenne a Napoli poco più di un anno fa, nella Casina Pompeiana della Villa Comunale, fu lacerato il velo nebbioso della Storia che aveva avvolto per secoli la tormentata vicenda architettonica e urbanistica della ex Caserma Bianchini, nota a tutti i Napoletani.
L’edificio monumentale, devastato dai bombardamenti alleati durante la Seconda guerra mondiale, rimase infatti per alcuni decenni a testimoniare fisicamente l’atrocità della guerra a Napoli. Poi fu recuperato attraverso i piani urbanistici dell’area di Via Marina nella zona della Maddalena, più nota forse come Ponte dei Francesi. Infine, un recente e buon restauro ha ridato al massiccio fabbricato la propria immagine decorosa e gradevole.
In occasione del ricordato maggio dei Monumenti si ebbe anche l’esibizione di un paio di esemplari della razza equina del cavallo “Napolitano” dell’allevamento Maresca, ubicato sui colli di Sorrento. E’ lo stesso che ispirò l’agile volumetto “La Favola del cavallo” che Maria Natale Orsini, la grande scrittrice “vesuviana” – come lei amava definirsi – scrisse a quattro mani con il giornalista Sabatino Scia.
Vale la pena di ricordare al lettore che il cavallo Napolitano, il Persano e il Salernitano rappresentano le tre razze campane riconosciute per legge. Esse sono razze di origini e tradizioni straordinarie, ciascuna per motivi diversi, però tutte hanno vissuto grandi periodi ai vertici mondiali dell’equitazione. Ma questa è altra storia, anzi, altra Grande Storia.
Le tre razze costituiscono un vanto per il patrimonio ippico italiano, il quale avrebbe corso il serio rischio di “perderne” la titolarietà ufficiale, rappresentata dal Registro delle razze equine, se non ci fossero stati tre allevatori coraggiosi e testardi.
Ci piace almeno citare rapidamente i tre meritevoli allevatori: per il cavallo Persano, Arduino Ventimiglia; per il cavallo Salernitano, Cecilia Baratta Belleli; e per quello Napolitano, Giuseppe Maresca. Ad essi i cittadini Campani devono il recupero delle tre razze equine e dei valori storici della zootecnica meridionale, che esse portano con sé.
Anche perché tutte e tre le razze erano considerate o dichiarate estinte o disperse, a un certo punto scomparse finanche nella memoria degli “addetti ai lavori”.
In particolare, era stata dichiarata estinta la razza del Persano, vanto della cavalleria borbonica a partire da Re Don Carlos di Borbone, che volle creare la razza alla metà del Settecento.
Ma ci basta ricordare al lettore che la lunga stagione d’oro dell’Ippica Italiana, risalente a circa mezzo secolo fa ormai, vide protagonisti splendidi esemplari di Persano e di Salernitano.
Da parte sua, invece, il Cavallo Napolitano – il più antico e nobile tra i tre Cavalli campani – per tre o quattro secoli fu il vanto di Napoli, come protagonista dell’Alta Scuola Equestre fino alla metà dell’Ottocento. Fu così che, mentre l’Alta Scuola Equestre si radicò in Europa e nel mondo, nell’Italietta postunitaria essa si avviò a un inarrestabile tramonto.
Eppure, i maneggi europei erano stati costruiti tutti sul modello degli antichi maneggi Napoletani e secondo i dettami dei famosi e ricercati “cavallerizzi” Napoletani.
A Napoli però il maneggio più antico, quello di epoca aragonese, sopravvisse a sé stesso e alla Storia che a volte tumultuosamente lo interessò direttamente, come nel caso della “rivoluzione dei dieci giorni” di Masaniello.
Il Maneggio sopravvisse infatti quasi intatto nell’edificio monumentale della ex Caserma Bianchini. Esso, con le sue mura perimetrali a scarpa, secondo il gusto fiorentino della tarda architettura aragonese era indicato in atti, vedute e carte geografiche come Cavallerizza Reale, ma fu ignorato anche dalla storiografia “napolitana” più accreditata.
Storici “puri” e storici dell’architettura di Napoli e del Regno Napolitano, sia antichi che moderni o contemporanei, affermavano compatti, salvo rari autori, che il complesso monumentale era stato totalmente rifatto nel Settecento borbonico e destinato a Quartiere di Cavalleria accanto al Serraglio di Guglielmo Sanfelice.
E quindi si sapeva che esso era stato utilizzato come Caserma di Cavalleria, denominata poi in epoca contemporanea, nel 1897, Caserma Bianchini; e così fino “all’altro ieri”.
D’altra parte, la costruzione del quartiere di Cavalleria era stata ordinata da Don Carlos di Borbone direttamente a Luigi Vanvitelli. Quest’ultimo, da grande architetto qual era, riorganizzò le preesistenti volumetrie nel sito della Maddalena, senza demolire interamente il preesistente complesso, di cui recuperò la grande ala che ospitava il Maneggio rinascimentale.
Laddove la Cavallerizza reale, poi eretta a Maneggio, aveva ospitato i più grandi Cavalieri e Cavallerizzi napoletani, inventori e maestri dell’Alta Scuola Equestre.
Dunque, il maneggio rinascimentale aragonese, il più antico del mondo, nato dalla Cavallerizza Reale, fu inglobato nelle forme nuove degli stilemi neoclassici vanvitelliani, come una gemma in uno scrigno prezioso.
Riaprire questo scrigno e la grande Storia che ne scaturisce deve essere l’obiettivo di tutti, nell’interesse di Napoli, della Campania e dell’intero Mezzogiorno.