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Consorzi stabili. Intervista al segretario dell’UCSI, ing. Ceccobelli

by Noemi Vorro
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Nel mondo dei lavori pubblici, uno dei settori portanti della nostra economia, oggi in profonda crisi, sono sempre più numerose le piccole e medie imprese di costruzione e società di ingegneria che si aggregano in consorzio per meglio affrontare la sfida della competitività. L’Unione dei Consorzi Stabili Italiani – UCSI è un’associazione che promuove le specificità dei consorzi e delle imprese che ne fanno parte. Abbiamo incontrato il suo segretario generale, l’ingegnere Gian Marco Ceccobelli, per farci raccontare lo stato dell’arte.

Che cos’è un consorzio stabile?

I consorzi stabili sono una figura giuridica nata con la legge Merloni, parecchi anni fa, con lo scopo di favorire la crescita delle piccole e medie imprese attraverso uno specifico meccanismo aggregativo. Le imprese si associano formando nuove società e mettono così insieme le proprie esperienze dando origine ad un’attestazione SOA, necessaria per partecipare alle gare di appalto pubbliche, complessiva. In pratica, vengono sommate le singole SOA delle varie imprese per formarne una per il consorzio. Un grande vantaggio competitivo per le piccole imprese.

Qual è la funzione dell’UCSI?

Quella di tutelare, come associazione di categoria, gli interessi dei consorzi stabili a livello istituzionale. Ovviamente, offre anche servizi di informazione e formazione. Attraverso i numerosi convegni organizzati, per esempio, spieghiamo le differenti modalità di approccio dei consorzi stabili al mercato. Per tutti, penso al partenariato pubblico privato, che rappresenta una valida alternativa alle gare.

Fate lobby, insomma?

Non esattamente. Noi proprio difendiamo gli interessi dei consorzi. Non a caso uso il verbo difendere e non promuovere. I consorzi stabili negli ultimi anni hanno infatti subito più di un attacco, perché fanno concorrenza alle grandi imprese. In Italia esistono circa 300 consorzi stabili e serve l’apporto di tutti per raggiungere questo obiettivo. Ovviamente stare nell’UCSI significa anche partecipare attivamente e non sempre sono tutti disponibili, però quando le imprese aderiscono difficilmente ci lasciano.

Fra le vostre battaglie c’è quella contro gli effetti negativi dello split payment.

Un problema enorme. Parliamo del pagamento dell’IVA anticipata, per noi particolarmente gravoso. Nel 2016 eravamo riusciti a convincere l’allora viceministro Zanetti a prevedere una norma che ne attenuasse gli effetti, ma l’Europa non diede il nulla osta. O meglio, l’Italia non la difese abbastanza in Europa. Ma noi continuiamo nel nostro impegno e siamo fiduciosi.

Recentemente, in audizione al Senato, avete presentato alcune proposte.

Proposte che sono state sposate da alcuni senatori. Se dovessero passare ci consentirebbero un deciso balzo in avanti. Si tratta della questione dell’avvalimento, ossia della possibilità per ciascuna impresa consorziata di avvalersi, appunto, dei requisiti consortili. Purtroppo, molte stazioni appaltanti pretenderebbero un avvalimento esplicito per ogni gara, laddove dovrebbe essere implicito. In questi sensi la nostra proposta. D’altronde converrebbe anche alla Pubblica Amministrazione che usufruirebbe della garanzia del consorzio sull’esecuzione delle opere, moltiplicata per il numero delle imprese che ne fanno parte. Sono comunque rimasto entusiasta della riunione in Senato, perché ho riscontrato un’attenzione mai avuta prima.

Parliamo di mercato europeo.

Quella del consorzio stabile è una figura solo italiana, non esiste all’estero come la intendiamo noi, per cui quando lavoriamo in Europa come consorzi stabili, abbiamo grosse difficoltà a farci riconoscere come entità a sé stanti rispetto alle singole imprese consorziate. Speriamo, in futuro, di riuscire a correggere questa impostazione.

Lo stato di salute del settore delle costruzioni è davvero così grave come si dice?

Tenga conto che, contemporaneamente alla crisi dei lavori pubblici, si è fermata completamente l’edilizia privata. A Roma, a Napoli, forse meno a Milano, non si vede più una gru. Questo ha messo il settore in coma. Sono stati persi 540.000 posti di lavoro, un numero che spaventa.

Basterebbe semplicemente tornare a spendere nelle opere pubbliche?

No, bisogna spendere bene, spendere con accortezza. E’ necessario individuare esattamente quali sono le priorità, perché l’opera pubblica fine a sé stessa non è mai servita, tutto deve essere finalizzato. Le esigenze in Italia sono tante. Scuole, ospedali, dissesto idrogeologico, costruzioni antisismiche, ripartizione modale del trasporto, da sempre sbilanciato sulla gomma a discapito del ferro, manutenzione. Potremmo andare avanti ore a dire quali opere pubbliche servirebbero. Poi è indispensabile una burocrazia più semplice ed efficiente. Insomma, bisogna diventare un Paese normale.

Non è un obiettivo da poco.

Eppure, sarebbe sufficiente maggiore attenzione da parte della politica. Non solo alle problematiche che hanno un effetto immediato, ma a quelle a lungo termine. Come l’altra sera al Senato. Ho incontrato persone preparate che avevano approfondito le questioni e che parlavano dopo aver bene analizzato le tematiche. Se questo modo di operare non fosse l’eccezione ma diventasse la regola, sarebbe un bel passo in avanti. Perché i problemi non sono semplici e le risposte ancora di meno. Dal canto loro, le imprese devono fare massa critica per contare di più. Parliamo di milioni di lavoratori che vanno difesi, il mondo delle costruzioni va difeso. Perché forse è proprio da lì che conviene ripartire per far ripartire il Paese.