Ieri si è tenuto il Consiglio dei ministri che ha discusso dei decreti sulle autonomie di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Come largamente preventivato, si sono registrate differenti posizioni tra M5Stelle e Lega e la questione è stata rinviata. Difficile che il Governo approvi qualcosa prima delle elezioni europee di primavera. Però il dossier è formalmente sul tavolo.
Credo che più o meno tutti sappiano in linea di massima di cosa si tratta. In questi ultimi giorni se n’è parlato moltissimo e i politici meridionali, non sempre significativamente presenti sul tema che pure è sul tappeto da anni, si sono abbandonati ad un profluvio di dichiarazioni.
Sono meno sicuro che tutti conoscano il merito della questione e le concrete connesse iniziative ventilate o messe in campo a casa nostra. Per casa nostra intendo la Campania, in un’ottica solo apparentemente provinciale, perché le autonomie regionali partono, per definizione, dal territorio.
Fuor di metafora e al netto degli stucchevoli paroloni spesi sulle ragioni storiche del Meridione o sul nuovo Risorgimento, si parla di gestione del potere e di soldi. Ossia di dove e da chi devono essere spese le tasse raccolte nelle varie regioni. Quelle ricche del Nord sostanzialmente vogliono che le entrate fiscali prodotte da loro restino a loro, in misura maggiore rispetto a quanto già non avvenga, e poiché la quantità è qualità, ne discendono conseguenze in ordine alla tenuta della coesione e della solidarietà sociale e all’effettivo esercizio dei diritti della persona. Insomma, ai motivi dello stare insieme.
Il cittadino dovrebbe essere indifferente a dove vive, nel senso che ovunque risieda dovrebbe pagare le stesse imposte (progressive) e ricevere gli stessi servizi (commisurati ai Livelli Essenziali delle Prestazioni che però non sono stabiliti). Sappiamo bene tutti che non è così già oggi. Se passasse questa autonomia il gap si allargherebbe. Cosa che non converrebbe neanche al Nord.
Per citare il bello studio dell’Unione Industriali di Napoli, i Residui Fiscali di cui si chiede la restituzione, semplicemente non esistono e, più appesantisci i vagoni, più arrancano le locomotive.
Il redivivo Lombardo-Veneto scimmiotta l’Europa cattiva nei confronti dell’Italia. Ognuno si trova al sud di qualcun altro.
Diamo ora un’occhiata al contesto normativo. L’articolo 116 della Costituzione dice che alle Regioni possono essere attribuite condizioni particolari di autonomia su iniziativa di queste ultime, sulla base di un’intesa fra Stato (cioè il Governo) e Regione, con una legge approvata a maggioranza assoluta dei parlamentari, nel rispetto dei principi dell’articolo 117 sulla potestà legislativa e dell’articolo 119 sull’autonomia finanziaria delle Regioni. C’è poi l’articolo 120 che parla di unità economica e di livelli essenziali delle prestazioni.
La procedura, apparentemente semplice, non lo è affatto. Il rischio di violare principi costituzionali è molto forte. D’altronde la nostra Costituzione è il frutto di un complesso compromesso politico e in molti casi, volutamente, non è stringente. Questo concede, almeno in prima battuta, ampi spazi di manovra e, al tempo stesso, determina incertezza.
E veniamo alle posizioni assunte sul territorio dalla politica e dalla società civile.
L’Unione Industriali di Napoli e l’Università Federico II hanno recentemente prodotto un documento dal titolo “L’autonomia possibile”, pubblicato sul sito dell’Unione e inviato al presidente del Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato, che vale davvero la pena di essere letto. Una disamina equilibrata, e per ciò stesso impietosa, delle richieste avanzate dalle tre Regioni del Nord, inserita in un quadro propositivo di oggettivo interesse. Per dare un’idea, vi si parla della necessità di superare le distorsioni che hanno portato a riconoscere fabbisogni standard iniqui in delicati ambiti sociali, in carenza di una preventiva definizione dei livelli essenziali delle prestazioni.
Dal canto suo Federica Brancaccio, presidente dell’Acen, si è detta preoccupata: “A me hanno insegnato che chi era privilegiato contraeva, naturalmente, un debito con la società, e non solo per spirito ‘ecumenico’, ma perché in quel patto sociale non scritto, ma fondamentale, risiedeva l’unica vera possibilità di sviluppo armonico e duraturo di una collettività che cresce e si evolve”.
Il presidente De Luca parla di ricorso alla Corte Costituzionale, si appella ai Governatori del Mezzogiorno e paventa la mobilitazione sociale. Il sindaco De Magistris è già in piazza, e non da ora, contro l’autonomia del rancore, dei ricchi contro i poveri. L’ex presidente Caldoro ha messo in campo la sua iniziativa referendaria per la Macroregione autonoma del Sud. Dobbiamo fissare dei paletti, e dobbiamo farlo sui diritti costituzionali garantiti per tutti, e sfidare il resto del Paese. Giorni fa è partita la raccolta delle firme.
La senatrice Paola Nugnes, pentastellata, l’unica tra quelli citati a dover esprimere il suo voto in Parlamento, raggiunta telefonicamente ci ha confermato che se non saranno stabiliti prima i livelli essenziali delle prestazioni stabiliti dalla Costituzione e la perequazione al 100%, se non saranno assicurati i servizi essenziali sul principio di equità orizzontale, voterò contro questa autonomia. Il M5S, ha proseguito, ha un preciso mandato elettorale dal Sud al quale deve dare risposte certe e sicure altrimenti avverrà l’implosione del Movimento. I presidenti delle Regioni meridionali hanno il diritto/dovere di fare ricorso contro ‘queste’ autonomie fuori dall’ambito di giustizia sociale, di equità orizzontale e di legge.
Sembra che tutti, a valle del Rubicone, siano contro l’autonomia differenziata per come viene proposta. Anche chi forse in passato ha fatto finta di niente. La questione non nasce, infatti, con questo governo e l’attuale opposizione ha diversi scheletri nell’armadio. Ebbene, allora si diano una mossa e lavorino insieme.
La politica non si fa con i ricorsi. Il referendum in Campania è sacrosanto, ma i tempi sono inevitabilmente biblici. Gli studi e le analisi sono importanti, ma non sufficienti. Se i 5Stelle non manterranno il punto, non basteranno i voti contrari dei dissidenti.
Divisi non si va da nessuna parte. Riunitevi, discutete, trovate una piattaforma comune minima. Spiegatela ai cittadini. Chiamateli a manifestare. Riempite, come si faceva una volta, piazza Plebiscito e vedrete se il Governo non si darà una calmata.
Troppo rischioso? Forse si, ma sai che colpo se funzionasse?