“Ipotesi di una sconfitta” di Giorgio Falco, è uno dei finalisti al premio Napoli, nella sezione narrativa. Giorgio Falco esordisce con la raccolta di racconti Pausa Caffè nel 2004. Il libro è finalista al Premio Chiara nel 2005. Segue nel 2009 la raccolta L’ubicazione del bene, che vince il Premio Pisa. Nel 2011 pubblica La compagnia del corpo, nel 2014 il romanzo La gemella H, che è finalista al Premio Campiello. Sempre nel 2014, con Sabrina Ragucci, pubblica Condominio Oltremare.
Ipotesi di una sconfitta, pubblicato nel 2017 è l’ultimo di questo autore, di cui in copertina vi è la foto, “una mia fototessera del 1987, prelevata e conservata, per più di vent’anni, da Sabrina Ragucci, che l’ha fotografata con la luce del 2017 … E sì, del mio corpo è rimasta soltanto la testa, peraltro rabberciata con lo scotch”.
Il testo è incentrato sulla sconfitta del protagonista, lo stesso Falco e di un’intera generazione, quella nata alla fine degli anni ’60, colta nello spaccato della città simbolo del lavoro in Italia e dell’evoluzione di esso, Milano. La generazione X, di cui Falco è il prototipo, vive il senso della precarietà per il cambiamento epocale del mercato del lavoro che sostituisce alle figure tradizionali (ferroviere, autista, idraulico, ecc.), quelle nuove, di non facile catalogazione semantica, ma soprattutto a tempo determinato.
Il primo capitolo (cioè le prime 56 pagine) sono dedicate al padre, riferimento affettivo, culturale e sociale del figlio. Autista di autobus nella Milano del 1956, istruttore di scuola guida per arrotondare lo stipendio, il padre ha sempre dimostrato attaccamento al lavoro, affetto per la divisa ma anche per le persone che trasporta sul bus nella quotidiana tratta di percorrenza: persone che conosce una ad una in un rapporto di solidarietà e condivisione che fa del suo lavoro quasi una missione. Da bambino il protagonista amava la divisa da autista degli autobus, che il padre indossava ogni giorno per andare al lavoro, tanto che a carnevale voleva vestirsi come lui, anziché da Zorro. L’epopea del lavoro paterno termina, emblematicamente, con la scoperta di un cancro, sopportato con coraggio e dignità ma che simboleggerà anche la fine di un mondo personale e di un’epoca lavorativa.
Il giovane Falco, abbandonati gli studi inizierà con lavoretti estivi per pagarsi qualche viaggio, per altro mai effettuato, e proseguirà via via con altre occupazioni precarie. Operaio stagionale in una fabbrica di spillette che raffigurano i Duran Duran, Che Guevara, Wojtyla e Gesù; venditore della scopa di saggina nera jugoslava, mentre, in quella che sarebbe diventata la ex Jugoslavia, imperversa la guerra; aspirante imprenditore di un’agenzia che organizza eventi deprimenti per le élite; analista del credito per una multinazionale telefonica; redattore di finte lettere di risposta ai reclami dei clienti; tocca sempre più rapidamente il fondo della spersonalizzazione finché a un certo punto si rifiuta di scrivere finte lettere e viene confinato in uno sgabuzzino, dove mangia, beve, urina in una bottiglia e scrive. Sino a quando non si licenzia, per l’ennesima volta, e decide di sostentarsi con le scommesse sportive, anche se nel frattempo scrive e compaiono i primi segnali di riconoscimento alla sua opera, cui egli, tuttavia, non sembra credere realmente.
L’autore vive sulla sua pelle i cambiamenti occupazionali con il distacco della rassegnazione come se la sua generazione non fosse in grado più di prendere in mano le redini della propria vita perché la Storia non glielo consente. Con il lavoro cambia anche l’assetto urbano di Milano, addio ai vecchi capannoni industriali, al deposito degli autobus che era come una seconda casa per il padre, circondato dall’affetto dei colleghi. Se, quindi, fino agli ’60 il lavoro conferiva identità e certezze alla persona, con il crescere del precariato si annulla il valore del singolo per seguire le sole regole del profitto. Importante è convincere il cliente, che diventa quasi una preda. Il nostro autore dopo tante esperienze fallimentari, abbandona il mondo del lavoro così com’é diventato, in cui non solo non si guadagna ma soprattutto si perde la propria dignità, per coltivare il suo impegno: la scrittura cui arriva, dunque, attraverso un lungo e tormentato apprendistato che lo mette in contatto con persone e personaggi di varia tipologia.
E’, dunque, un testo in cui prevale l’elemento descrittivo: il mondo del lavoro, nelle sue svariate e umilianti declinazioni viene sezionato in tutti i suoi aspetti ed in tutti gli agenti del meccanismo, con uno stile in cui la minuziosità del dettaglio rende possibile vedere quasi dal vero il settore occupazionale che il protagonista affronta. Questo rende la lettura non sempre facile: si vive come un senso di soffocamento nel leggere di quelle situazioni. Forse è proprio questo senso di oppressione, seppure velato da una certa ironia nel tratteggiare i caratteri, che l’autore voleva comunicare. Tuttavia, il testo risulta troppo lungo, alla fine vorremmo tutti che questo benedetto lavoro lo trovasse davvero e, quando sembra che neanche la scrittura sia la strada giusta, ci sentiamo coinvolti nella disperazione.
Ma, per fortuna, nella realtà, Falco ce l’ha fatta anche se milioni di altri giovani si sono perduti. E’ una generazione che esce sconfitta e non per colpa dei padri: l’idea narrativa è buona, l’ampiezza della dimostrazione eccessiva.
di Piera De Prosperis