Einaudi 2017, finalista al Premio Napoli, sezione narrativa.
I fantasmi personali di Michele Mari appartengono ad un’Accademia, quella dei Ciechi, che a mezzanotte convoca nella Sala del Camino l’autore, imponendogli di scrivere la propria autobiografia.
Nasce così, in un’atmosfera onirica ed horror, lo spunto di scrittura. Da questa imposizione che è poi quella della coscienza di liberarsi da tutte le paure o anche semplicemente di dare ad esse un nome per poi superarle, razionalizzandole, viene fuori una “strana” autobiografia.
L’attenzione dell’autore si concentra sull’infanzia, il periodo in cui, attraverso il confronto con le figure genitoriali, si forma il nostro io.
Il padre e la madre di Michele sono Enzo Mari e Gabriela (Iela) Ferrario. In particolare, la figura del padre emerge e giganteggia. Confesso la mia ignoranza: non sapevo chi fosse. Enzo Mari è stato un grande artista e designer degli anni del dopoguerra, alla continua ricerca e sperimentazione di nuove forme, spesso in contrapposizione con gli schemi tradizionali del disegno industriale. Personaggio ruvido e poco attento alla crescita emotiva del figlio, incarna il Laio del complesso edipico in modo magistrale. Sarà un continuo incontro-scontro, ammirazione-delusione, amore-sofferenza che segneranno le scelte personali dell’autore che, per esempio, contro il volere paterno, sceglierà la facoltà di Lettere.
Riconoscersi-progettarsi nel figlio è cosa buona e giusta, nell’ammissione dell’alea del divenire; altra cosa è pretendere un figlio a propria somiglianza ed imago.
La madre, Iela Mari, disegnatrice e autrice di libri per bambini, figura dolente e malinconica, la luna rispetto alla solarità del marito, una perfetta macchina di dolore, terrà con sé i figli, dopo la separazione dal marito, segnandone, con la sua malinconia e la sua debolezza, il carattere.
Il rapporto con i genitori si intreccia con figure minori: i nonni paterni e materni, la sorella, gli zii, ma anche con personaggi noti, come Enzo Jannacci o Eugenio Montale e Dino Buzzati, amici questi ultimi del nonno materno, Buzzati anche compagno di escursioni montane della madre, quando ancora il suo carattere malinconico e solitario, che la porterà ad un isolamento emotivo, non aveva
preso il sopravvento.
La conclusione sarà: “Ho preso il peggio di entrambi”, ma questo significherà essere diverso e soprattutto sé stesso.
Essere un Mari significava anche questo: assomigliarsi molto, salvo giocarsi ognuno per conto suo la propria drammatica unicità.
Lo stile con cui Mari affronta la scoperta di sé è decisamente difficile. Bisogna avere la forza di superare le prime venti pagine, dove la presenza dell’Accademia dei Ciechi è più forte, e con essa un linguaggio distorto e onomatopeico, perché poi la narrazione proceda più sciolta e libera dall’impianto iniziale. Fatto questo, il testo diventa un ricco contenitore di aneddoti, situazioni e persone in cui il lettore può ritrovare anche momenti della propria vita interiore e riconoscersi nel drammatico rapporto con i propri genitori. Spesso le vicende del giovane Mari ritornano, rilette in momenti successivi come nella Coscienza di Zeno in cui il tempo circolare del racconto fa sì che l’autore sia narratore e soggetto della narrazione. Del resto a Svevo lo lega anche il rapporto con un padre padrone, ostacolo da superare e da recuperare in età adulta, nonché l’ironia che sottende a tutta la narrazione
L’autore ha, quindi, uno stile personalissimo, come anche in Tu, sanguinosa infanzia, una raccolta di racconti sulla stessa tematica. E’ uno stile che vivifica il tradizionale genere biografico.
Il testo è corredato di foto in bianco e nero, commentate dall’autore: con esse davvero sembra di toccare con mano la vicenda e partecipare al travagliato matrimonio di Enzo e Iela e, commossi, alla serietà/malinconia che si legge nel Michele bambino, già in nuce afflitto dai suoi demoni.
di Piera De Prosperis