“Avete letto mai Roberto De Simone? Ha fatto un lungo viaggio nella tradizione E dice che in Italia, col passar degli anni. La musica peggiora e non si va più avanti.” Era il 1973 quando Edoardo Bennato cantava “Rinnegato” brano del suo album d’esordio “Non farti cadere le braccia”. Quel Roberto De Simone citato aveva collaborato alle musiche dell’album. Da allora in poi molti, moltissimi hanno letto, ascoltato, ammirato e soprattutto amato Roberto De Simone che si è spento alcuni giorni fa a Napoli all’età di 91 anni. È stato musicista, compositore, regista, musicologo, antropologo e studioso delle tradizioni popolari. Tra i principali protagonisti della cultura del Novecento, promotore del rilancio della tradizione teatrale e musicale partenopea.
Il suo nome resta legato, tra i tanti lavori, a “La gatta Cenerentola”, opera teatrale tratta da uno dei racconti di “Lo Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile, che debuttò al festival dei Due mondi di Spoleto, nel 1976, prima che lo spettacolo approdasse nei teatri di mezzo mondo, dagli Stati Uniti al Brasile alla Scozia, facendo registrare ovunque il tutto esaurito, nonostante fosse recitato in un dialetto partenopeo antico e ambientata in una Napoli caratterizzata da munacielli e femmenielli, dalle lavandaie, da una matrigna sette volte vedova, da sette sorellastre, dalla soldataglia spagnola padrona del campo. Successo che rappresenta il coronamento espressivo di un momento ricco di ibridazioni culturali e fermenti sociali, come fu quello tra gli anni Sessanta e Settanta.
In realtà la musica era una delle due metà del cuore del Maestro. L’altra è stata il teatro. Era convinto che l’una e l’altro custodissero gli archetipi della cultura napoletana, soprattutto di quella popolare. Di cui lui cercava le tracce nelle feste, negli antichi canti devozionali, nelle processioni ai santuari delle Madri miracolose, dove quei simboli, rimossi dalla cultura borghese riemergevano in tutta la loro potenza. In queste litanie, salmodie e liturgie il grande regista vedeva riaffiorare quel fondo arcaico sopravvissuto ai secoli e giunto fino a noi come testimonianza vivente di una storia remota, nostra e non più nostra. Risultato? Un suono che nessuno aveva mai sentito, ma che tutti già conoscevano. Tamburi a cornice, zampogne e voci che non cantano, ma invocano. Sembrava musica uscita da un film di Pasolini ambientato in un presepe disturbato. Eppure, il pubblico, prima diffidente poi rapito, capì che in quel ritorno alle radici c’era qualcosa di autentico e necessario.
In queste ricerche, De Simone ha dedicato la vita per salvaguardare e far riscoprire un patrimonio culturale straordinario che rischiava di spegnersi. Dall’incontro con un gruppo di giovani appassionati di musica tradizionale come Giovanni Mauriello, Eugenio Bennato e Carlo d’Angiò, nacque la Nuova Compagnia di Canto Popolare, della quale per un decennio è stato l’indiscusso animatore, ma anche il ricercatore rielaborando in chiave contemporanea diverse tradizioni musicali dell’Italia meridionale, come la pizzica, la tarantella e la tammuriata.
Nell’esperienza con la Nuova Compagnia di Canto Popolare si ritrovano già alcuni degli elementi fondamentali del suo modo di fare teatro e si può individuare in essa un nuovo modo di concepire e proporre la musica popolare. Dopo un periodo di esclusiva attività musicale il gruppo accentua progressivamente il carattere teatrale delle proprie esibizioni.
La lista dei lavori e degli onori è lunghissima, ma non basta a comprendere la potenza dell’ingegno multiforme di De Simone, che scelse di praticare un teatro epico, popolare, antiborghese, vivianeo e non eduardiano. Su De Filippo diceva che, pur essendo un grandissimo artista, aveva contribuito alla morte del teatro napoletano più autentico, mettendo in scena una Napoli piccolo-borghese, incapace di guardare in faccia la miseria e il degrado, anzi estetizzandole e neutralizzandole.
Eduardo, insomma, aveva davvero ucciso Pulcinella. Di contro, De Simone cercava di tenerlo in vita, convinto che, come il suo amato Stravinsky (aveva sempre un suo spartito sul pianoforte), la maschera di Napoli coniugasse oralità e scrittura, vitalità plebea e sapere filosofico e, soprattutto, la vita, la morte e il loro mistero.