Montesquieu definisce nella sua celebre opera “Lo spirito delle leggi” quali sono i caratteri di una corretta costituzione degli Stati. Ammiratore, nell’Europa del Settecento, del sistema inglese, che viveva di una tensione tra Monarchia e Parlamento, è da considerazioni morali che prende avvio la sua analisi: “il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente”; “chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti (…). Perché non si possa abusare del potere occorre che (…) il potere arresti il potere”. Sono questi i presupposti della sua sempre più invocata -oggi- “divisione dei poteri” in cui consisterebbe una moderna costituzione. Senza dimenticare un esito sempre possibile: “Siccome tutte le cose umane hanno una fine lo Stato di cui parliamo perderà la sua libertà, perirà. Roma, Sparta e Cartagine sono pur perite”.
«La libertà politica non consiste affatto nel fare ciò che si vuole. In uno Stato, vale a dire in una società dove ci sono delle leggi, (…) la libertà è il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono; e se un cittadino potesse fare quello che esse proibiscono, non vi sarebbe più libertà, perché tutti gli altri avrebbero del pari questo potere. La democrazia e l’aristocrazia non sono Stati liberi per loro natura. La libertà politica non si trova che nei governi moderati. Tuttavia non sempre è negli Stati moderati; vi è soltanto quando non si abusa del potere; ma è una esperienza eterna che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne; va avanti finché trova dei limiti. Chi lo direbbe! Perfino la virtù ha bisogno di limiti. Perché non si possa abusare del potere bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere (…).
In ogni Stato vi sono tre generi di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile. In forza del primo, il principe, o il magistrato, fa le leggi per un certo tempo o per sempre, e corregge o abroga quelle che sono già state fatte. In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In forza del terzo, punisce i delitti o giudica le controversie dei privati. Chiameremo quest’ultimo il potere giudiziario, e l’altro semplicemente il potere esecutivo dello Stato.
(…) Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, poiché si può temere che lo stesso monarca, o lo stesso senato, facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: infatti il giudice sarebbe legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati.
(…) Poiché, in uno Stato libero, qualunque individuo che si presume abbia lo spirito libero deve governarsi da sé medesimo, bisognerebbe che il corpo del popolo avesse il potere legislativo. Ma siccome ciò è impossibile nei grandi Stati, e soggetto a molti inconvenienti nei piccoli, bisogna che il popolo faccia per mezzo dei suoi rappresentanti tutto quello che non può fare da sé. Si conoscono molto meglio i bisogni della propria città che quelli delle altre città, e si giudica meglio la capacità dei propri vicini che quella degli altri compatrioti. Non bisogna dunque, che i membri del corpo legislativo siano tratti in generale dal corpo della nazione, ma conviene che in ogni luogo principale gli abitanti si scelgano un rappresentante.»
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, Lo spirito delle leggi.