Foto by Unicef
L’Autrice è professore ordinario di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Federico II di Napoli e, tra gli altri incarichi, è Membro della redazione di “Ricerche di Storia politica”, il Mulino.
Dal 24 febbraio 2022, giorno nel quale ha avuto inizio in Ucraina la cosiddetta Operazione Militare Speciale (SVO), lanciata dalla Federazione russa in nome degli obiettivi dichiarati di bloccare l’ulteriore avanzata della Nato in Europa orientale, difendere la popolazione del Donbass, “denazificare” l’Ucraina, sono trascorsi quasi tre anni. Milioni di ucraini hanno abbandonato il paese dopo l’inizio del conflitto e l’assai consistente supporto occidentale economico e umanitario, oltre che militare, ha consentito al paese di resistere ma non ha certamente potuto evitare il drammatico impatto sociale, economico e demografico della guerra, evidenziato negli ultimi mesi anche dalle difficoltà incontrate dalle autorità militari ucraine nel mobilitare uomini da inviare al fronte per rimpiazzare le gravi perdite umane subite. Il 30 settembre 2022 Vladimir Putin aveva ratificato l’incorporazione di quattro regioni ucraine – Cherson, Zaporože/Zaporizžja, Doneck/Donec’k, Lugansk/Luhans’k – nella Federazione russa. Dopo i temporanei successi ucraini dell’autunno 2022 e il fallimento dell’offensiva nell’estate 2023, le forze armate russe non hanno più smesso di avanzare nel Donbass, molto lentamente ma continuamente, conquistando villaggio dopo villaggio, con un incremento di ritmo a partire dall’autunno 2024. Oggi la Russia controlla circa un quinto del territorio dello Stato ucraino emerso dalla dissoluzione dell’URSS nel 1991.
Colpita dalle sanzioni più imponenti della storia, dopo aver attraversato momenti di difficoltà militare nel corso del 2022 e aver fronteggiato, nel giugno 2023, il tentativo insurrezionale guidato dall’imprenditore Evgenij Prigožin, a capo della compagnia militare privata “Wagner”, la Russia ha dimostrato non solo capacità di adattamento sul terreno e disponibilità a imparare dagli errori compiuti sul piano militare, ma anche una buona resilienza sul terreno economico-finanziario: il FMI ha rivisto al rialzo le stime di crescita del PIL per il 2024 (3,6%) e, pur con tutte le fragilità e gli scompensi che l’assetto economico russo presenta (il dato più preoccupante rimane l’inflazione), le previsioni sono moderatamente positive ancora per il 2025. Gli analisti occidentali più imparziali sono ormai concordi nell’affermare che la Federazione russa sta vincendo la guerra, anche se i mezzi di informazione continuano a offrire uno scenario contraddittorio e talvolta “reticente”.
L’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti sembra aver inaugurato una fase più favorevole alla ripresa del dialogo, che promette almeno di chiudere il periodo peggiore dei rapporti russo-statunitensi dopo la fine del comunismo. Concretamente, tempi e modi di un eventuale percorso di “uscita” dalla guerra sono ancora tutti da definire, e l’unica certezza è che non saranno sufficienti 24 ore per raggiungere il cessate il fuoco, men che meno per costruire una pace duratura. Si attende un contatto diretto tra i due presidenti dopo l’insediamento di Trump del 20 gennaio, ma è doveroso sottolineare che in questo momento sembrano esserci almeno due divergenze preliminari da superare: a) mentre gli Stati Uniti riconoscono pienamente il potere di Zelens’kyj, la Russia ha ripetutamente affermato che non può sedere al tavolo delle trattative con il presidente ucraino, dal momento che quest’ultimo avrebbe perso legittimità politica dopo la scadenza del mandato avvenuta il 20 maggio 2024; b) in Occidente si fa costantemente riferimento a un cessate il fuoco, ma la Russia ha ribadito di essere interessata solo a un accordo di pace basato su solide garanzie di sicurezza, e non a una pausa che consentirebbe agli ucraini di superare le difficoltà attuali in vista di una futura ripresa della guerra.
Nel 2022, dopo il fallimento dell’iniziale tentativo russo di ottenere, attraverso l’invasione e l’intimidazione militare, il riorientamento in senso filo-russo della leadership politica in Ucraina, è divenuto realtà sin dalla primavera lo “scenario B”, vale a dire una logorante e sanguinosa guerra di posizione nelle regioni del Donbass. L’Ucraina aveva costruito infatti dal 2014 in avanti imponenti fortificazioni lungo la linea di contatto con le autoproclamate repubbliche di Doneck e Lugansk (corrispondenti alla parte orientale e sud-orientale delle rispettive regioni amministrative ucraine), ed è stato proprio negli estenuanti scontri per il controllo di fabbriche e miniere, linee di collegamento, piccole città e villaggi dislocati lungo quel fronte che è stato pagato il tributo più pesante in vite umane della guerra.
Le cifre reali delle vittime non sono ufficialmente note, ma sono certamente nell’ordine delle centinaia di migliaia di uomini morti e feriti. Le autorità militari ucraine e russe hanno imposto una ferrea censura militare su questi dati, e con tutta probabilità li conosceremo veramente solo dopo la fine del conflitto. Le notizie che di tanto in tanto sono rilanciate dai mezzi di comunicazione di entrambe le parti devono essere valutate con cautela, dal momento che palesemente “gonfiano” le perdite del nemico minimizzando le proprie, e sono parte integrante della dimensione mediatica e propagandistica della guerra (come è ormai riconosciuto apertamente almeno dagli analisti militari).
Le immagini che giungono dal fronte ci mostrano lunghe trincee e tortuosi camminamenti, edifici alti (palazzi a molti piani e grandi fabbriche) trasformati in fortezze, campi minati, modeste alture artificiali minerarie (terrikony) che hanno assunto valenza di punti di controllo militare del territorio, distruzioni imponenti (spesso quasi totali) dei centri abitati, dovute sia al massiccio martellamento dell’artiglieria pesante che ai combattimenti condotti con i carri armati. Molti commentatori hanno posto l’accento sul carattere convenzionale di questa guerra e sulle sue modalità “novecentesche”. Si tratta però di una rappresentazione parziale, che lascia in ombra altri aspetti connessi all’impiego delle tecnologie più recenti, ad esempio l’utilizzo massiccio di droni, sia di ricognizione che di assalto, e di dispositivi sofisticati di controllo e “correzione” delle traiettorie dei missili (oltre che dei droni stessi).
Sarà in futuro compito degli studiosi ragionare con rigore scientifico e con il dovuto distacco critico intorno alle origini storiche di una guerra così devastante divampata lungo il fianco sud-orientale dell’Europa. Alcune riflessioni sulle scelte politiche compiute dai protagonisti del conflitto, certamente provvisorie ed emendabili, si possono però già proporre al lettore.
La Federazione russa di Vladimir Putin, giunto con la vittoria elettorale del 2024 al quinto mandato presidenziale, si configura oggi come uno Stato connotato da un sistema di “autoritarismo elettorale”, dominato dalla centralità della figura del presidente e dal reticolo di poteri forti a lui legati. Una delle premesse di questa evoluzione in senso autoritario del sistema politico russo post-comunista era stata posta già nel 1993, con il varo della costituzione iper-presidenzialista voluta da Boris E’lcin. Quest’ultimo alla fine degli anni Novanta, mentre la Russia era in bancarotta e ormai apertamente paragonata a un paese del “terzo mondo” ricco di risorse ma in balia di potentati economici interni e internazionali, designò Putin come proprio successore e, nominandolo primo ministro e poi soprattutto presidente ad interim, creò le condizioni favorevoli per la sua vittoria nelle elezioni presidenziali del 2000 in cambio della promessa di impunità per se stesso e per la propria famiglia.
Nel 2000-2008 la Federazione russa ha conosciuto una notevole crescita economica che è stata la condizione fondamentale per tornare a rivendicare un ruolo di “grande potenza” sulla scena internazionale. All’indomani dell’11 settembre 2001 la leadership russa aveva manifestato sostegno incondizionato agli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamica, ma poi mostrò di non apprezzare la scelta unilaterale dell’amministrazione Bush di intervenire militarmente in Iraq nel 2003. Preoccupazioni ancora maggiori suscitò il sostegno statunitense alle rivoluzioni arancioni in Ucraina e in Georgia, paesi attraversati da profonde divisioni politiche e destinati a divenire l’epicentro della competizione tra Russia e Occidente.
Mentre l’allargamento a est delle Alleanze occidentali giungeva a compimento (ampliamenti della Nato nel 1999 e nel 2004 e dell’UE nel 2004 e nel 2007), comportando di fatto il riposizionamento geopolitico della Russia ai margini dell’Europa, peraltro contestualmente allo svilupparsi di intensi rapporti economici e commerciali reciprocamente favorevoli, si moltiplicavano i segnali che la Federazione russa non avrebbe tollerato una ulteriore espansione delle Alleanze occidentali nei paesi del cosiddetto “Esterno vicino”, ribattezzati paesi del “Vicinato comune” dopo il varo da parte dell’Unione Europea dei partenariati orientali nel 2009. L’intervento militare in Georgia dell’estate 2008 ha rappresentato da questo punto di vista un primo momento di svolta, ma è stata la crisi ucraina del 2013-14 a segnare l’apertura della drammatica fase storica culminata nel conflitto attuale.
Nel corso del 2013 il presidente ucraino Viktor Janukovič aveva cercato di fronteggiare la grave crisi economica in corso aprendo trattative sia con l’Unione Europea che con la Russia. Quando, in seguito alle pressioni di quest’ultima, decise di non firmare un Trattato di associazione all’area di libero commercio precedentemente concordato con l’Europa, cominciò la mobilitazione di Euro-Maidan, sfociata in scontri armati nel centro di Kiev e culminata, benché fosse stato siglato un accordo tra il presidente e i leader dell’opposizione del quale si erano fatti garanti i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia, nella destituzione di Janukovič, fortemente voluta dalle frange nazionaliste ucraine radicate nelle regioni più occidentali del paese.
Gli eventi di Kiev suscitarono reazioni negative presso segmenti della popolazione del Donbass e delle regioni meridionali, acuendo la frattura tra le diverse anime di questo composito paese. Putin reagì con un’operazione di “guerra ibrida” che stupì il mondo: l’annessione incruenta della Crimea, abitata in prevalenza da russi e filo-russi. Seguirono condanne e sanzioni da parte dell’Occidente, mentre nella primavera cominciava il conflitto armato nel Donbass, “congelato” nel febbraio 2015 dagli accordi di Minsk-2, stipulati con la mediazione franco-tedesca e poi disattesi da entrambe le parti nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale.
Dopo il 2014, mentre in Ucraina cominciava a giungere un flusso significativo di armamenti statunitensi e di istruttori militari anche canadesi, britannici e polacchi, la Federazione russa teneva in vita le piccole repubbliche secessioniste di Lugansk e Doneck con ogni sorta di aiuti, militari e civili. L’inasprimento delle politiche culturali in Ucraina e in Russia ha contribuito non poco a erodere ogni margine di possibile dialogo: le “guerre della memoria” intorno al passato storico novecentesco sono sfociate in leggi memoriali e processi penali, e l’esasperazione dei toni nazionalistici e patriottici ha alimentato radicalizzazione e intolleranza. Nel febbraio 2019 la costituzione ucraina è stata emendata con l’introduzione di un riferimento all’ingresso nella Nato come obiettivo ineludibile, ribadito, nel settembre dell’anno seguente, anche nella nuova Strategia di Sicurezza Nazionale dell’Ucraina.
Nel 2021 il mondo ha assistito a una escalation che con il senno di poi avrebbe dovuto destare maggiore inquietudine e sollecitare almeno qualche tentativo di mediazione: imponenti esercitazioni militari, concentrazione di truppe lungo i confini, dichiarazioni muscolari e velate minacce, reiterate violazioni del cessate il fuoco nel Donbass. Alla richiesta della Federazione russa di ottenere garanzie scritte sul non ingresso dell’Ucraina nella Nato quest’ultima ha risposto nel gennaio 2022 ribadendo fermamente la politica della “porta aperta”, e la decisione fatale di Putin di procedere con l’attacco militare, considerata a quel punto probabile dall’intelligence statunitense, ha colto comunque di sorpresa non solo l’opinione pubblica, ma anche gli osservatori più competenti. Oggi che si comincia più spesso a parlare di come costruire la pace è utile non dimenticare con quanta inconsapevolezza si è entrati in guerra. Il peso della responsabilità che grava sulle spalle del leader russo è assai grande, ma anche gli Stati Uniti e l’Europa hanno qualche fardello da portare.