La filosofa e storica statunitense Susan Sontag ha viaggiato in aree di conflitto, anche durante la guerra del Vietnam e l’assedio di Sarajevo. In questo breve scritto parla dell’impatto delle rappresentazioni fotografiche che ci hanno trasmesso le sofferenze e l’orrore della guerra: dai cadaveri dei soldati della Guerra Civile Americana fotografati da Alexander Gardner alla celeberrima “Morte di un miliziano repubblicano” di Robert Capa, dalla bandiera Usa a Iwo Jima ai bambini vietnamiti bruciati dal napalm, dalle foto dei lager nazisti nel gennaio del ’45 a quelle del campo di Omarska in Bosnia, per arrivare fino alle rovine di Ground Zero e ancora oltre. “È possibile una “riproduzione” del dolore? Come si può fotografarlo o filmarlo senza sottrargli verità?”, si chiede.
«Consideriamo due idee molto diffuse sull’impatto della fotografia (…).
La prima idea sostiene che l’attenzione del pubblico sia manovrata dai media – e dunque, in maniera preponderante, dalle immagini. Se ci sono fotografie, una guerra diventa “reale”. La protesta contro la guerra del Vietnam fu, infatti, mobilitata dalle immagini. La convinzione che bisognasse fare qualcosa per fermare la guerra in Bosnia si è fondata sull’attenzione dei giornalisti – “l’effetto CNN”, come lo si è a volte definito – che sera dopo sera, per oltre tre anni, hanno fatto entrare le immagini dell’assedio di Sarajevo in centinaia di milioni di case. Tali esempi illustrano il decisivo influsso esercitato dalle fotografie nell’individuare le catastrofi o le crisi a cui prestare attenzione, e nel dar forma alle nostre preoccupazioni e, in ultima analisi, alle valutazioni che diamo di un determinato conflitto.
La seconda idea – che potrebbe sembrare opposta a quella appena descritta – sostiene che in un mondo saturo, anzi ipersaturo, di immagini, diminuisce l’impatto di quelle che dovrebbero avere importanza: diventiamo insensibili. Alla fine, tali immagini non fanno che renderci meno capaci di partecipare, di avvertire il pungolo della coscienza (…).
Designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderarne le fiamme. E tuttavia, sembra di per sé utile ampliare le nostre conoscenze e prendere atto di quanta sofferenza causata dalla malvagità umana esiste nel mondo che condividiamo con gli altri. Chi continua a essere sorpreso dall’esistenza della perversità, chi è disilluso (o addirittura incredulo) di fronte alle prove delle crudeltà raccapriccianti che a mani nude gli uomini sono capaci di commettere ai danni di altri esseri umani non ha raggiunto la maturità morale o psicologica.
(…) Non ce la facciamo. Non riusciamo a immaginare davvero come è stato. Non possiamo immaginare quanto è terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventa.
Non capiamo, non immaginiamo. È questo ciò che pensano con convinzione tutti i soldati, e tutti i giornalisti, gli operatori umanitari, gli osservatori indipendenti che si sono ripetutamente esposti al fuoco e hanno avuto la fortuna di eludere la morte che ha falciato chi stava loro vicino. E hanno ragione.»
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri.