“Nell’autunno del 1995, dopo aver dato le dimissioni dal mio ultimo incarico accademico, decisi di farmi un regalo e realizzare un sogno. Chiesi alle sette migliori studentesse che avevo di venire a casa mia il giovedì mattina per parlare di letteratura. Erano tutte ragazze…”: è l’incipit del bellissimo -e sconvolgente- romanzo/autobiografia della scrittrice iraniana Azar Nafisi. Sono passati trent’anni da allora: “Il mondo è cambiato, ma la violenza è la stessa. La differenza è che le donne iraniane adesso, rispetto a prima, sono più forti. Ma per queste ragazze, per Sanaz, per Azin, per Nassrin, le cose non sono cambiate. Vivono ancora in uno stato totalitario”.
«“Lui (Ramin) era… non è migliore degli altri. Si ricorda quel passo di Bellow che ci leggeva sempre, sulla gente che ci svuota addosso i secchi d’immondizia del pensiero?”. Sorrise di nuovo. “Be’, le presento Ramin e i suoi amici intellettuali”.
Era troppo, perfino per una scansa-problemi professionista come me. Bere un sorso d’acqua, ce lo insegnano i romanzi, è un buon modo di prendere tempo. “Che vuoi dire con “non è migliore degli altri”? Quali altri?”.
“Be’, lo zio ci andava giù pesante” disse piano. “Un po’ come Nahvi. Ramin era diverso, agli inizi. Aveva letto Derrida; conosceva Bergman e Kiarostami. No, lui non mi ha mai toccata; a dire la verità è stato ben attento a non toccarmi. Ma è stato peggio. Non riesco a spiegarlo, erano i suoi occhi”.
“I suoi occhi?”.
“Il modo in cui guardava la gente, le altre donne. Me ne accorgevo sempre” disse. Abbassò la testa, sconfortata. “Ramin pensava che ci fosse differenza tra le ragazze da cui era sessualmente attratto e quella che avrebbe sposato. Sa, la ragazza che avrebbe diviso con lui la sua vita intellettuale, e avrebbe avuto il suo rispetto. Rispetto” ripeté, con rabbia. “Rispetto era la parola che usava. Mi rispettava. Ero la sua Simone de Beauvoir, senza il sesso però. E lui era troppo vigliacco per andare a far sesso con le altre. Gli bastava guardarle. Siamo arrivati al punto che mentre parlava con me guardava mia sorella più grande. La guardava e basta. Fissava le donne nel modo… nello stesso modo in cui mio zio mi toccava”.
Mi dispiaceva per Nassrin e, stranamente, anche per Ramin. Sentivo che anche lui aveva bisogno di aiuto -anche lui aveva bisogno di conoscere meglio sé stesso, a cominciare dai suoi desideri (…). Almeno con l’ayatollah Khamenei si sapeva dove si andava a parare, ma gli altri, quelli tutti pieni di pretese e di idee politicamente corrette -loro erano i peggiori (…).
Ogni volta che penso a Nassrin, comincio e finisco sempre con quel pomeriggio nel mio studio, quando mi disse che sarebbe partita. Si era fatta sera. Fuori, il cielo era del colore del crepuscolo -non ancora scuro, non più chiaro, ma nemmeno grigio. La pioggia cadeva fitta, e gocciolava dai rami bruniti e spogli del pero.
Ripeté: “Me ne vado”. A ventisette anni, aggiunse, ancora non sapeva che cosa volesse dire vivere. Aveva sempre creduto che non potesse essere più dura che in carcere, ma si sbagliava. “Là, in prigione,” proseguì “pensavo quello che pensavamo tutte, che ci avrebbero ammazzate, e sarebbe finita lì, oppure saremmo sopravvissute, ci avrebbero liberate e avremmo ricominciato da capo. Là, in prigione, sognavamo semplicemente di essere di nuovo fuori, libere, ma quando sono uscita ho scoperto che mi mancava il senso di solidarietà che avevamo in cella, il senso di uno scopo, il modo in cui tentavamo di spartirci il cibo e i ricordi. E mi manca anche adesso, la speranza. In prigione avevamo la speranza di poter uscire, andare all’università, divertirci, guardare un film. Ho ventisette anni, e non voglio restare nascosta per sempre, sconosciuta anche a me stessa. Voglio sapere, sapere chi è questa Nassrin. Lei lo chiamerebbe “il peso della libertà”, credo” concluse sorridendo.»
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran.