Come ho avuto modo di scrivere in altri miei articoli dedicati al tema delle città e della loro psicourbanistica cangiante o moribonda, così in questo mio nuovo scritto toccherò il tema dell’urbanistica delle città che escludono invece di includere.
Credo che sia opportuno partire da una critica economico-politica. La visione neoliberista da saccheggio delle aree urbane e dell’ettaro/metro quadro da lottizzare, senza altra prospettiva, o pensiero progettuale cittadino, se non quella di mettere a profitto al massimo la rendita fondiaria, ha prodotto lo scempio urbanistico nel quale, tutt’oggi, milioni di cittadini sono costretti a vivere.
Il risultato è stato l’avvento di intensivi palazzoni alti e anonimi con la precisa intenzione di sfruttare il più possibile le aree dove si è avuta l’opportunità, più o meno legale, di costruire. Due sono state sul territorio le gravi conseguenze di questo tipo di intervento costruttivo:
- L’assenza di una realizzazione urbanistica in grado di soddisfare le esigenze psicologiche e sociali degli esseri umani che le avrebbero abitate.
- Il sorgere dei cosiddetti quartieri dormitorio.
A partire almeno dalla fine degli anni ‘50 del secolo scorso si è verificata, e continua a verificarsi in Italia, la tendenza all’arrembaggio costruttivo che, complice certa politica prona, ha prodotto le realtà cittadine attuali. Dette realtà, per la maggior parte, sono sprovviste di una visione urbanistica che tenga conto dell’esigenza di realizzazioni favorenti il miglior incontro tra gli individui e, dunque, del vivere civile.
Per la psiche del sapiens non è sufficiente procurarsi un posto dove potersi riparare dalle intemperie. Fin dall’età in cui si rifugiava in caverne e spelonche, l’essere umano ha sentito il bisogno psichico di adornare, con pitture e graffiti “proiettivi”, le pareti delle grotte dove si era organizzato per vivere. Non solo, ma anche ha sentito forte la necessità di disporre l’interno e l’esterno di detti atri naturali, suddividendoli in spazi adibiti a cerimonie di iniziazione o a luoghi deputati a celebrare ricorrenze o liturgie di notevole intendimento psicosociale.
Negli anni più incriminati, dunque, in cui i cosiddetti palazzinari hanno avuto gioco facile in Italia per realizzare una speculazione edilizia senza precedenti e di orribile fattura, si è costruito in maniera sciagurata, senza tener conto delle esigenze pratiche e psichiche di cui l’essere umano ha sempre avuto bisogno. Si è sacrificato ogni cosa, ogni principio sano e responsabile di progettualità urbana ben realizzata, sull’altare del Dio profitto.
Questa miope visione di politica economica e costruttiva ha prodotto, e continua a produrre tutt’oggi, malessere esistenziale. Nei quartieri di molte realtà comunali non è stata prevista la possibilità di avere altra conferma al proprio Io se non quella di uscire da tali palazzoni dormitorio e scendere in strade anonime e “deserte”, seppure affollate. Vie dove non esiste altra disposizione costruttiva che faciliti il miglior incontro tra le persone (anzi, direi che favorisca lo scontro). Ricordo che la buona conferma identitaria è data dalla migliore relazione con l’altro. L’identità non ha la possibilità di svilupparsi al meglio se condizionata, in ambito urbanistico, da un esasperato principio economico profittevole.
In numerosi e desolanti scenari cittadini restano soltanto poche opportunità di contatto umano. Una delle più semplici è andare a spendere parte del proprio reddito in negozi e attività commerciali, (il cosiddetto shopping). Punti vendita ricavati proprio dai locali posti alla base delle costruzioni in quartieri progettati male e realizzati peggio. Aggiungo anche che la tecnologia, attualmente, con la possibilità di acquisto on line, asseconda la chiusura e l’isolamento: volendo non è più necessario uscire di casa nemmeno per le esigenze più urgenti. Il cerchio della “trappola” consumistica si chiude. Il risultato che si ottiene è una nevrogena alienazione sociale che porge il destro alla sofferenza psichica e alla sua conseguente espressione in atti di violenza.
Nella città di Milano, la tendenza urbanistica che è in voga ormai da tempo è la costruzione di quartieri con piccoli grattacieli, che all’apparenza sembrano ben progettati e disegnati. Tralascio il fatto che, mentre scrivo, nella città meneghina, sono in atto situazioni politico-giudiziarie, con tanto di ddl di salvataggio in extremis del sindaco Sala da parte dei soliti trasversali “comites” politici e d’affari edilizi. Non è mia intenzione infilarmi in questa specifica polemica politica.
Detti quartieri “grattacellari”, dicevo, sembrano ben pensati e costruiti, ma se ci si avvicina, anche senza la lente d’ingrandimento dell’urbanista preparato e consapevole, ci si accorge subito che questa filosofia dell’erigere è prigioniera della citata, in apertura d’articolo, visione economico-politica neoliberista tout court da “saccheggio”, anche se presentata con un maquillage urbano all’apparenza gradevole. È un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, dove è difficile dare priorità ad un fatto piuttosto che all’altro. Cioè, la visione neoliberista dello sfruttamento impietoso del metro quadro innesca il comportamento umano con le sue scelte di vita o sono quest’ultime ad innescare la corsa neoliberista della lottizzazione e del costruire con certe disinvolte modalità poiché convenienti e profittevoli? Sta di fatto che gli investitori sono attratti da tali condizioni e, date per immutabili le regole del gioco, è impossibile regolarne la fame sregolata di utile.
Partendo dal dato sociale che la famiglia, intesa in senso classico, ormai è in crisi e in via di estinzione, assistiamo, in queste città escludenti, al fenomeno architettonico e urbanistico dell’arte costruttiva rivolta ai single.
Restando nella città di Milano, un dato interessante che fa riflettere è che oltre il 45% degli alloggi pensati e progettati sono dedicati alle persone sole con una buona disponibilità economica. Seguendo siffatta politica urbanistica, la città da bere, è mia opinione, si è bevuta gran parte della possibilità di diventare una vera città accogliente e di raccordo, non solo finanziario, col nord Europa, smarrendo così la sua vera ricchezza. Perdita che non ha tardato a presentarle un conto molto salato in termini di conflitto sociale, di controllo della sicurezza, di emarginazione e di garanzia del benessere diffuso.
Ribadisco, cosa nasce prima in urbanistica? La visione speculativa finanziaria fondiaria che propone appartamenti, palazzi, quartieri per persone sole, comunque connessi al reddito, o la tendenza sociale con tanto di scelte di vita che inducono ad organizzarsi l’esistenza come singoli individui scollegati dalla relazione con l’altro? È una riflessione che richiede una complessa e articolata risposta. Sta di fatto che, quando si esce dal chiuso di detti piccoli appartamenti contenuti in piccoli grattacieli e si frequenta l’esterno, ci s’immerge sì in una urbanità di design, ma al contempo non si ha quasi alcuna possibilità di sano incontro. La causa è che sono rari, o mancano del tutto perché non attrattivi di significativi investimenti per la rendita immobiliare, piccoli negozi di prossimità, luoghi deputati alla socialità come biblioteche pubbliche, centri culturali comunali, sedi di associazioni specializzate in tematiche educative, scuole d’ogni genere e grado, parchi intensivi, ben studiati e, soprattutto, ben manutenuti nel tempo, con percorsi ginnico salutistici che permettano un benefico, seppur minimo, forest bathing e cose simili.
La società delle folle sole si attaglia perfettamente a questo modo di costruire e questo modo di costruire si sposa ad incastro con la società delle persone sole. La solitudine, l’isolamento e l’esclusione sono generatrici di ansia e producono un’assenza di senso, quale morso crudo di vita, che è la loro diretta, pericolosissima, conseguenza.
Così si spiegano in parte certi fenomeni, del tutto urbani, del consociativismo estremo e violento delle gang, soprattutto giovanili. La violenza è figlia della paura e del vuoto esistenziale; tutte conducono alla non partecipazione pacata, consapevole e ragionata. L’urbanistica delle città escludenti favorisce questo triste panorama.
Ecco perché ripeto che la buona architettura e la buona urbanistica sono in grado di curare e, se pensate bene e realizzate meglio, addirittura possono contribuire a sanare le piaghe sociali della esclusione, della solitudine, del vuoto dell’esistenza e, infine, della violenza che naturalmente ne consegue.