Foto: Ministero dell’Interno
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La continuità degli incarichi nel ristretto circuito delle poche decine di gabinettisti ministeriali si riscontra in modo abbastanza evidente nelle statistiche, oltre che attraverso la ricostruzione delle schede biografiche. Secondo le rilevazioni tra il 1979 ed il 1995, assumendosi convenzionalmente il ‘93 come anno di cesura tra la prima e la seconda Repubblica, i dieci gabinettisti più assidui hanno ottenuto 89 incarichi su 343 (oltre il 25% del totale) ed i dieci capi degli uffici legislativi più continui circa il 30%. Si segnala, tra le altre, la prolungata performance del presidente di sezione della Corte dei conti Alfonso Rossi Brigante, che ha ricoperto continuativamente incarichi in ben tredici ministeri assumendo poi la presidenza dell’Autorità di vigilanza per i lavori pubblici (Anonimo, “Io sono il potere”, citato).
Un incisivo tentativo di rinnovamento fu esperito dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nel 2014, che – nell’ambito della generale “rottamazione” – cercò di orientare in modo innovativo la nomina dei capi di gabinetto del suo governo, di cambiare e ridurre le élite tradizionali, incrementando tra l’altro l’inserimento nelle strutture di funzionari parlamentari, ritenuti di maggiore sensibilità e vicinanza politica. Un esempio, piuttosto clamoroso, di rottura degli schemi fu costituito dalla (criticatissima) nomina, al vertice dello strategico Dipartimento giuridico-legislativo (DAGL) della Presidenza del Consiglio – in successione ai consiglieri di Stato Claudio Zucchelli e Carlo Deodato – di Antonella Manzione, dirigente di ente locale e comandante della polizia urbana di Firenze, introducendosi una innovazione discutibile e senza precedenti in quel ruolo in uno alla nomina di Mauro Bonaretti, anch’egli proveniente dagli enti locali, a segretario generale della Presidenza del Consiglio (poi consigliere della Corte dei Conti). Qualche anno dopo la Manzione veniva nominata consigliere di Stato, in maniera altrettanto travagliata, e sostituita alla guida dell’ufficio legislativo della Presidenza dal funzionario parlamentare Roberto Cerreto, già capo gabinetto in altri ministeri.
Le ricerche sulle caratteristiche del personale gabinettista – scarsamente regolamentato dalla normativa, che si limita a prevedere requisiti non molto specifici – evidenziano una formazione culturale e professionale quasi esclusivamente giuridica, una scarsa presenza femminile, una provenienza territoriale prevalentemente meridionale, percorsi di carriera variegati e non uniformi caratterizzati da frequenti passaggi di ruoli ma con una provenienza maggioritaria dal circuito della magistratura amministrativa, contabile e dall’Avvocatura dello Stato, che rappresentano i tre principali ambiti di reclutamento.
Ciascuno dei tre “grand corps”, e soprattutto il Consiglio di Stato, ha costituito una fucina di capi e vicecapi di gabinetto e del legislativo che quasi sempre esercitano queste funzioni non aggiuntivamente ma in posizione di fuori ruolo – e, quindi, in via esclusiva e a tempo pieno – sospendendo temporaneamente il servizio presso il corpo di appartenenza (anche per periodi prolungati). Sotto il profilo soggettivo, le esperienze di direzione di gabinetti ministeriali hanno costituito quasi sempre elementi di rafforzamento del percorso di carriera nei corpi di appartenenza – da cui si sono temporaneamente distaccati – come dimostra la circostanza che molti gabinettisti professionali sono poi assurti ai vertici dei rispettivi istituti (Presidenti del Consiglio di Stato, della Corte dei conti o Avvocati Generali dello Stato), o in alternativa approdati alla Corte Costituzionale, alle Autorità indipendenti o ad incarichi politici come parlamentari, ministri o sottosegretari. Ad esempio Giorgio Crisci (1923-2010), capo del legislativo e di gabinetto a lungo ed in molti ministeri, nonostante la sua sostanziale assenza in servizio dal Consiglio di Stato per i prolungati incarichi esterni, fu nominato Presidente del Consiglio di Stato in carica dal 1986 fino al 1995 ed assunse poi la presidenza delle Ferrovie della Stato dal 1995 al 1998.
Sotto il profilo oggettivo, per il Consiglio di Stato il supporto indiretto offerto all’esercizio della funzione di governo, attraverso la messa a disposizione di un nutrito contingente di magistrati in fuori ruolo, costituisce una rilevante attribuzione aggiuntiva rispetto alle primarie funzioni consultive e giurisdizionali che influisce sensibilmente nella configurazione del suo peso istituzionale.
In realtà il consistente e reiterato utilizzo di magistrati amministrativi e contabili in compiti “extra ordinem” ha spesso generato critiche e perplessità, sia adombrandosi ipotetici conflitti di interessi o quantomeno questioni di opportunità – per la possibile, ancorché indiretta, sovrapposizione di ruoli di controllo e di amministrazione -, sia per l’indebolimento dei corpi di provenienza a causa della sottrazione al servizio di istituto di un buon numero di magistrati, sia per la ricavabile percezione negativa che la classe di governo nutra pregiudiziale sfiducia nella capacità ed affidabilità dei dirigenti interni. Il pregevole saggio di Melis riferisce di una vibrata protesta formulata nel lontano 1951 dall’allora Presidente del Consiglio di Stato Leopoldo Severi, indirizzata al capo del governo De Gasperi e al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Andreotti, in cui egli denunciava puntigliosamente quanti consiglieri fossero sottratti all’attività di istituto in quanto inseriti nei gabinetti o in altre funzioni paragovernative. “Mansioni più gradite -scriveva durissimo il presidente Severi- perché più soddisfacenti e più remunerate”. A seguito della autorevole protesta il sensibilissimo Presidente De Gasperi rinunciò a malincuore ad avvalersi a Palazzo Chigi del suo capo gabinetto, consigliere di Stato Miraglia – sostituendolo con il prefetto Bartolotta, già suo segretario personale – ed invitò i ministri a seguire il suo generoso esempio, senza però ottenere alcun riscontro dai colleghi di governo. Analoghi ma rituali, e forse insinceri, richiami furono successivamente rivolti ai ministri dai Presidenti del Consiglio Pella (1953), Scelba (1954) e Fanfani (1962), rispetto alla prassi di cooptazione dei consiglieri di Stato nella formazione dei gabinetti ministeriali che andava via via consolidandosi.
Esempi recenti e di spicco di Presidenti del Consiglio di Stato con ampie esperienze di direzione di gabinetti e legislativi (oltre a quelli già citati) possono individuarsi in Filippo Patroni Griffi – capo di gabinetto e del legislativo in vari ministeri, segretario di authority, capo dipartimento, sottosegretario, ministro ed ora giudice costituzionale -, Alessandro Pajno, Giorgio Giovannini, Pasquale De Lise, Giancarlo Coraggio – capo del legislativo e di gabinetto più volte, presidente del Consiglio di Stato e poi della Corte Costituzionale -, Carlo Anelli, Aldo Quartulli. Il Consiglio di Stato costituisce la principale riserva di reperimento di capi gabinetto prestigiosi – sin dai governi del centrismo degasperiano – quale istituto di massimo livello consultivo e giurisdizionale a competenza generalista, per definizione profondo conoscitore dell’amministrazione e delle sue problematiche, fortemente valorizzato nel suo ruolo dalla Costituzione repubblicana rispetto alla già rilevante collocazione preesistente. I consiglieri di Stato impegnati come capi gabinetti sono per lo più magistrati di carriera ma anche di nomina governativa, spesso di provenienza prefettizia, che talvolta hanno continuato a svolgere le precedenti funzioni di gabinettista nella nuova veste (come ad esempio Broise e Miraglia con De Gasperi, Catenacci e Gasparri agli Interni ed altri).
Nell’ambito dei principali gabinetti ministeriali hanno prestato servizio consiglieri e presidenti di sezione del Consiglio di Stato che hanno lasciato impronte significative , tra cui – con grande varietà curriculare – Corrado Calabrò, Andrea Manzella, Giuseppe Santaniello, Paolo De Joanna, capo gabinetto di Ciampi, Tommaso Alibrandi, Livia Barberio Corsetti (per citare qualcuna delle poche donne), Carlo Malinconico, Antonio Catricalà, Pietro e Vincenzo Fortunato, Roberto Garofoli, Italo Volpe, Giuseppe e Luigi Carbone, Sebastiano Scarcella e tanti altri. All’attualità la consigliera di Stato Francesca Quadri svolge la funzione di capo del nevralgico Dipartimento giuridico-legislativo della Presidenza del Consiglio.
Tra le figure di giuristi manageriali si ricorda il già citato siciliano Giovanni Torregrossa, magistrato ordinario e poi consigliere di Stato, di area democristiana, molte volte capo di gabinetto in tandem con il ministro corregionale Gullotti e vicino a Fanfani, di cui fu capo di gabinetto alla Presidenza del Consiglio nel 1983, poi nominato presidente dell’Agensud – erede della Cassa del Mezzogiorno – per gestire l’ultimo ciclo dell’intervento straordinario del Mezzogiorno e la delicata fase liquidatoria.
In fase successiva hanno acquisito notevole spazio anche i magistrati della Corte dei conti, sia di carriera che di nomina governativa, inizialmente impegnati soprattutto nei gabinetti dei ministeri economici e finanziari e poi inseriti in modo diffuso e generalizzato nelle varie strutture di collaborazione. Per citare alcuni esempi, si ricorda il toscano Manin Carrabba, al Bilancio con il ministro Antonio Giolitti, Giuseppe Carbone, consigliere di Stato, capo del legislativo e di gabinetto di diversi ministeri di orientamento socialista e poi presidente della Corte dei Conti dal 1985 al 1988, Francesco Battini tra l’altro capo di gabinetto del Ministro Cassese alla Funzione pubblica e di De Mauro alla Pubblica Istruzione, i già citati Alfonso Maria Rossi Briganti e Luigi Giampaolino (quest’ultimo Presidente della Corte), capi di gabinetto ed entrambi successivamente Presidenti dell’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici, Lamberto Cardia, capo di gabinetto del Ministro Dini al Tesoro, poi sottosegretario alla Presidenza nel suo governo e quindi presidente della Consob. Personalità di spicco anche quella di Paolo Maddalena, già funzionario prefettizio, procuratore e presidente di sezione della Corte dei conti, capo dell’ufficio legislativo del nascente Ministero dell’Ambiente e Capo di gabinetto del ministro della Pubblica Istruzione Gerardo Bianco (1990-1991), poi giudice costituzionale dal 2002 al 2011 e vicepresidente della Consulta.
Analogamente hanno guadagnato considerevole spazio nei gabinetti ministeriali gli avvocati dello Stato, di spiccata professionalità in ambito legale e consultivo, alcuni – in una certa fase di evoluzione politica – ritenuti vicini alla componente socialista dei governi di centro-sinistra, in cui si realizzò una loro maggiore presenza.
Si individuano come capiscuola il già citato Avvocato Generale Manzari di area cattolica – storico collaboratore di Aldo Moro nei vari ministeri ed alla Presidenza del Consiglio -, e Nino Freni, socialista, stabile collaboratore dei Presidenti Craxi, Amato e del vicepresidente Martelli, ed inoltre gli avvocati generali Mazzella, Di Pace e Massella Ducci Teri (il primo dei tre ha singolarmente cumulato le esperienze di gabinettista, capo dell’Avvocatura, ministro e giudice costituzionale), Antonio Tallarida, Raffaele Tamiozzo, Angelo Nunziata gabinettisti consolidati.
Nella tradizione più risalente, la platea più vasta di gabinettisti professionali era costituita dal corpo prefettizio, considerato – per il background generalista – la più affidabile ed esperta tra le amministrazioni pubbliche, unitamente alla carriera diplomatica prestigiosa e meglio retribuita (soprattutto per il servizio all’estero) ma meno inclusiva e specialistico-settoriale per il suo ambito internazionalistico.
L’amministrazione dell’Interno, costituita ad ordinamento speciale per effetto della riforma della polizia (legge n. 121/1981), esprime da sempre nel proprio seno, con rarissime eccezioni ed oggi per legge, i capi di gabinetto e del legislativo, scelti tra prefetti di prima classe (secondo la vecchia denominazione), ma soprattutto ha espresso molti capi di gabinetto della Presidenza del Consiglio – secondo una prassi risalente all’epoca in cui il capo del governo cumulava anche le funzioni di ministro dell’interno – e di altri ministeri. La carriera prefettizia in passato aveva larga proiezione esterna sfornando la più ampia pattuglia di gabinettisti, anche indirettamente se si considera che molti funzionari prefettizi sono transitati – per concorso o per nomina governativa – nei ruoli del Consiglio di Stato, svolgendo o continuando a svolgere in quella veste le funzioni nei gabinetti, normalmente più consone alla propria preparazione rispetto all’esercizio delle funzioni giurisdizionali. In questo senso si possono ricordare, tra i tanti, il prefetto Miraglia al servizio del Presidente De Gasperi, nella prima fase dei suoi governi; il già citato “scelbiano” Corrado Catenacci, nominato consigliere di Stato più volte capo gabinetto al Viminale e a Palazzo Chigi; il prefetto consigliere di Stato Mario Semprini con Forlani agli Esteri e poi alla Presidenza del Consiglio e, più recentemente, il prefetto Carmelo Caruso (già ad Avellino, Milano e Roma), nominato consigliere di Stato nel 1996-97, Direttore di Gabinetto del Presidente del Senato Mancino e prematuramente scomparso.
Al Viminale si ricordano due sole eccezioni alla regola ferrea e consolidatissima del Capo di Gabinetto interno: nel 1960 col governo Tambroni ricoprì quell’incarico il consigliere di Stato Ugo Severini e nel 1976, dal ministro Cossiga fu nominato capo gabinetto il presidente di sezione del Consiglio di Stato Arnaldo Squillante. Ulteriori ma non contraddittorie eccezioni sono state rappresentate da capi gabinetti del Viminale consiglieri di stato, ma già a lungo prefetti e quindi “di casa” al Ministero dell’interno, come Guido Broise, Corrado Catenacci ed Ugo Gasparri, e perciò non percepiti dall’amministrazione come soggetti esterni sebbene non rivestissero più formalmente la qualifica prefettizia.
Nella storia repubblicana e soprattutto prerepubblicana, numerosi sono stati i prefetti capi di gabinetto della Presidenza del Consiglio e di altri ministeri: dai già citati Salice e Peano nei primi del ‘900 con il Presidente Giolitti e Bortolotta con De Gasperi nel secondo dopoguerra; dai prefetti Mastrobuono e De Zerbi, entrambi capi gabinetto all’Industria, e quest’ultimo anche alle Partecipazioni statali, a Libero Mazza in tandem con Tambroni al Viminale e poi a Palazzo Chigi nel 1960 (ricordato per il profetico “rapporto Mazza”, di cui fu autore come prefetto di Milano negli anni ’70), da Mario Semprini, collaboratore di Forlani alla Farnesina e a Palazzo Chigi nel 1980, fino all’imbarazzante coinvolgimento nella vicenda della P2, al prefetto Carmelo Caruso – in epoca più recente – Direttore di Gabinetto (1996-97) al Senato della Repubblica, Claudio Gelati capo gabinetto al Viminale e poi ai Lavori Pubblici e Raffaele Lauro, capo gabinetto alle Attività produttive. Piuttosto singolare fu l’esperienza svoltasi “ex abrupto” dalla lontana provincia al massimo centro e poi in senso inverso, del cagliaritano Casimiro De Magistris, prefetto di Sassari (1954-55), chiamato dal Presidente del Consiglio corregionale Antonio Segni come capo gabinetto a Palazzo Chigi e poi rientrato a Sassari, riassumendo “alla Cincinnato” le funzioni di prefetto della stessa sede nel 1957-59.
Tra i capi di gabinetto di epoca recente del Ministero dell’Interno si ricordano, tra gli altri, Gaetano Marfisa con Taviani, Antonio Lattarulo, negli anni ottanta braccio destro di Oscar Luigi Scalfaro, Rolando Ricci con Fanfani, Raffaele Lauro – prefetto di provenienza esterna all’amministrazione – capo della segreteria del ministro Gava e capo gabinetto con Scotti e Mancino, anni dopo alle Attività produttive con Scajola, Claudio Gelati successivamente capo gabinetto alle Infrastrutture e Trasporti con il ministro Lunardi, Aldo Marino, Roberto Sorge, Bruno Ferrante, Carlo Mosca, figura di altissimo profilo intellettuale e morale – capo gabinetto con i ministri Pisanu, Amato e Maroni – prefetto di Roma sino alle dimissioni e quindi consigliere di Stato, Giuseppe Procaccini, Gianni De Gennaro, già capo della Polizia e successivamente direttore del DIS e sottosegretario ai servizi di sicurezza, Mario Morcone già capo gabinetto del Ministro Riccardi ed attualmente assessore regionale in Campania, Bruno Frattasi capo di gabinetto del Viminale, prefetto di Roma ed oggi direttore generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale.
Una singolarità rappresentativa della perdurante autorevolezza della amministrazione prefettizia è che gli ultimi due ministri dell’Interno, Matteo Piantedosi attualmente in carica e la precedente Luciana Lamorgese, dal 2019 al 2022 con i governi Conte II e Draghi – brillanti prefetti, con prestigiosi percorsi curriculari – abbiano entrambi precedentemente ricoperto il ruolo di Capi di gabinetto del Viminale, transitando quasi in continuità dal vertice amministrativo alla diretta titolarità di uno dei dicasteri più importanti (in passato appannaggio di leader politici e di esponenti di primissimo piano della maggioranza).
Nelle fila dei capi gabinetto dei Ministeri, oltre agli esponenti dei tre grandi corpi dello Stato, sono variamente confluiti consiglieri parlamentari, – ritenuti di più spiccata sensibilità politica -, magistrati ordinari soprattutto di cassazione, professori universitari e, in qualche caso, esperti esterni della più svariata estrazione (liberi professionisti, dirigenti ed ex-dirigenti pubblici ed anche privati con curriculum diversificati). Tra i magistrati di cassazione con la più duratura trafila di gabinettista si può citare il siciliano Salvatore Zhara Buda (1920-2002), tra i più longevi al Ministero della Giustizia dal 1978 al 1987, in continuità attraverso numerosi ministeri e governi, e capo del legislativo di via Arenula fino al 1991.
La consolidata prassi di preporre in tali ruoli professionalità generaliste provenienti dalle grandi filiere esterne si sta oggi progressivamente diffondendo ed estendendo anche ai più importanti Enti territoriali (Regioni e grandi Comuni), in proporzione al riequilibrio dei poteri corrispondente alla evoluzione dell’assetto istituzionale in senso semi-federalista o regionalista ” spinto”. Il potenziamento degli staff e la più forte qualificazione dei gabinettisti negli Enti territoriali esprime una comprensibile linea di tendenza, correlata al maggior rilievo politico-amministrativo gradualmente acquisito dalle Regioni negli ultimi lustri (dalle riforme Bassanini del 97-98 al nuovo Titolo V della Costituzione) ed alla oggettiva complessità della loro funzione di governo, che per dimensioni le assimila alle grandi amministrazioni dello Stato, di talché il peso rappresentativo acquisito del Presidente di una Regione medio/grande o anche di un sindaco di città metropolitana risulta oggi non inferiore a quello di un ministro di livello intermedio.
Un esempio di questa recente tendenza è rappresentato dal Comune di Roma dove attualmente le funzioni di capo di gabinetto del Sindaco sono esercitate dal consigliere della Corte dei Conti Stancanelli, ex collaboratore del Ministro della Funzione Pubblica Bassanini, mentre il Comune di Napoli si avvale come Capo di gabinetto del Sindaco di una dirigente regionale, con precedenti esperienze di gabinettista, e nella pregressa sindacatura di un ufficiale dei carabinieri. Una fattispecie significativa, nell’ambito degli enti regionali, è rappresentata dalla Campania in cui – dal 2010 al 2023, prima con la giunta Caldoro di centrodestra fino al 2015, e poi con quella di centrosinistra presieduta da Vincenzo De Luca – si sono succeduti, nel ruolo di Capo di Gabinetto, ben due avvocati dello Stato (Del Gaizo 2010-15 e Borgo 2020-22) e tra essi un consigliere di Stato (Sergio De Felice), fino all’attuale dirigente interno Bove, già vice capo gabinetto, proveniente dall’Avvocatura regionale. Inoltre hanno prestato servizio negli stessi anni, in successione come vice Capi gabinetti della Presidenza, due avvocati dello Stato, due viceprefetti, un magistrato contabile ed esperti esterni (professori universitari) ed un magistrato amministrativo, nell’ufficio legislativo e come consiglieri giuridici.
In definitiva ci si domanda se sia oggi da ritenersi opportuna e fisiologica la prassi, finora prevalente, di scegliere i “gabinettisti professionali” tra le fila dei corpi d’élite, in considerazione del loro speciale “pedigree” e, in ragione negativa, per la non piena autorevolezza delle dirigenze interne, non sempre adeguatamente formate e reclutate in un Paese che non vanta la gloriosa tradizione francese di alta amministrazione (simboleggiata dalla mitica École National d’Administration-ENA istituita nel secondo dopoguerra da De Gaulle). Oppure se sia invece giusto preporre ai ruoli di collaborazione apicale le più qualificate risorse interne reperibili nell’ambito delle rispettive amministrazioni, favorendo una loro piena responsabilizzazione di ruolo, in modo da valorizzare appieno le effettive potenzialità delle dirigenze e la loro integrazione nei massimi ruoli. Oggi l’alta dirigenza amministrativa, nonostante lo status riconosciutogli dalla riforma del 1972 ed il principio della netta separazione tra gli atti politici di indirizzo e quelli di gestione – consacrata e consolidata negli anni ’90 (con le normative dal 1990, 1993 e 1998) – è stata indebolita dalla precarizzazione e fiduciarizzazione dei ruoli apicali per effetto del discutibilissimo meccanismo dello spoils system, che la pone sostanzialmente alla mercè dei decisori politici, con effetti di minore autorevolezza e deresponsabilizzazione.
Probabilmente la soluzione appropriata può individuarsi in un equilibrato dosaggio tra eccellenti risorse esterne e professionalità interne – con una sempre auspicabile contaminazione ed alternanza tra estrazioni diverse – continuando, da un lato, ad avvalersi di expertise di alto rango ma, dall’altro, dischiudendo opportunità di maturazione e valorizzazione per le dirigenze pubbliche, di cui oggi bisogna consolidare ed accrescere abilità manageriale ed autorevolezza professionale.
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