Archivio Fondazione Fiera Milano
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Il rilievo fattuale dei Gabinetti si è ulteriormente consolidato in periodo recente, anche a causa della minore autorevolezza delle classi di governo, dell’indebolimento delle leadership politiche, della scarsa capacità amministrativa di molti uomini di governo e, quindi, della minore credibilità e fascino oggi esercitato dalla prima linea della vita pubblica, che invece una volta era monopolizzata dagli attori e protagonisti politici. Al minore “appeal” esercitato sul proscenio dal ceto politico corrisponde oggi una maggiore attenzione ed interesse a quello che invece si muove dietro le quinte, e al cosiddetto “potere opaco” – meno appariscente ma sostanzioso – dei gabinetti e delle altre strutture di “stato maggiore”, che costituisce un fenomeno emergente, ancorché non nuovo ed abbastanza consolidato nella prassi ma poco indagato in letteratura e in storiografia.
Non è dunque un caso che, solo negli ultimi anni, è emerso un certo interesse degli opinionisti e degli studiosi sulle dinamiche e sui protagonisti dei gabinetti ministeriali – con la recente fioritura di letteratura giornalistica e storico-politologica – considerati significativa componente del cosiddetto “deep State” (Stato ombra o profondo), costituito da apparati che esercitano un potere incisivo ma dislocato nelle immediate retrovie, meno esposto alla visibilità pubblica e per certi versi riservato o fasciato dalla penombra.
La pubblicistica recente ha enfatizzato il mito del “potere oscuro e l’esistenza di un anonimo manipolo di burocrati che sarebbe il vero detentore del governo della nazione, indipendentemente dagli orientamenti politici e dalle scelte dell’elettorato”, assurto ad esagerato luogo comune, come osserva Funiciello in una interessante pubblicazione (“Il metodo Machiavelli. Il leader e i suoi consiglieri”, Milano, 2022). Una certa ironica pubblicistica (del tipo “Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto”, già citato), ha alimentato una leggenda o, quantomeno una forzata rappresentazione, ma è tuttavia realistica l’osservazione sul crescente rilievo dei gabinettisti professionali che, come osserva Sabino Cassese, “suppliscono ad una duplice carenza, quella della politica e quella dell’amministrazione”.
Secondo questa autorevole ricostruzione, alcuni storici capi di gabinetto di chiara levatura hanno contribuito “a compensare la breve durata dei governi assicurando continuità” alle loro politiche, balzando all’attenzione alcuni binomi o “coppie inscindibili” di statisti e grand commis (come, ad esempio, il Prefetto Bartolotta capo di gabinetto di De Gasperi, l’avvocato dello Stato Manzari con Moro, i consiglieri di Stato Carbone con Einaudi, Piga con Rumor, Quaranta con De Gasperi, Torregrossa con Gullotti). I funzionari gabinettisti svolgono compiti molteplici e spesso infungibili: “riempiono buchi, risolvono problemi, affrontano emergenze. Sono impegnati tutti i giorni sia sul fronte parlamentare, sia su quello governativo, sia su quello amministrativo. Sono loro che conoscono persone, precedenti, dossier, poteri. Non se ne potrebbe fare a meno” (Cassese S., “Amministrare la nazione. La crisi della burocrazia ed i suoi rimedi”, Milano, 2022).
Il filone di ricerca più articolato ed organico sul tema dei gabinetti ministeriali nei governi italiani è quello sviluppato e curato, con varie pubblicazioni collettanee, dallo storico dell’amministrazione Guido Melis. Da un rapido sguardo ad esperienze di Capi di gabinetto di particolare spessore ed autorevolezza, risultano sia la prolungata durata nelle cariche, anche in continuità, sia la frequente mobilità orizzontale nel loro esercizio – nonostante l’avvicendamento dei referenti ministeriali e le cangianti maggioranze politiche – sia una certa fungibilità nei ruoli di consiglieri di staff, capi e vicecapi di gabinetto e del legislativo e della segreteria (vedi, inter alios, a cura di Melis-Natalini, “Governare dietro le quinte”, Il Mulino, Bologna, 2023).
Si tratta di pedine strategiche che hanno variamente concorso al funzionamento delle istituzioni governative, esprimendo connotazioni e posture diverse accomunate tuttavia da alta tecnicalità, acume e risolutezza professionale e, soprattutto, dal prestigio e poliedricità derivante dai molteplici ruoli ricoperti, non senza significativi sbocchi di alcuni importanti gabinettisti ad incarichi politici veri e propri (con una tendenziale osmosi, in passato più frequente e per certi versi positiva, tra ruoli di alta amministrazione e politica).
Uno degli esempi di capi di gabinetto più versatili dell’Italia liberale del primo Novecento può identificarsi nella personalità del prefetto piemontese Camillo Peano (1863-1930), il quale – succedendo al prefetto e consigliere di Stato Vittorio Salice anche lui piemontese – ricoprì quel ruolo con il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, che rivestiva anche la carica di Ministro dell’Interno, secondo una prassi all’epoca consolidata. Il potentissimo Peano non fu soltanto “factotum” della Presidenza del Consiglio, che supportò tra l’altro Giolitti nella gestione del catastrofico terremoto di Messina del 1908, ma poi anche ministro, senatore del Regno e presidente della Corte dei Conti e svolse molti importanti incarichi, tra cui quello di presidente della commissione per l’edilizia governativa che decise la localizzazione dei principali ministeri ed uffici pubblici a Roma.
Ben prima Camillo Benso, conte di Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna e protagonista indiscusso dell’Unità d’Italia, ebbe un valido capo di gabinetto “ante litteram” nel conte torinese Costantino Nigra (1828-1907), che lo accompagnò al congresso di Parigi del 1856 e gli fornì utilissimo supporto, divenendo poi ambasciatore e senatore del regno. Svolse un ruolo di rilievo, in particolare nell’ultima fase del regime fascista, il prefetto di prima classe Nicola De Cesare (1891-1965), segretario particolare di Mussolini che lo assisteva nei più importanti incontri ufficiali, tra cui i vertici con Hitler e l’ultimo drammatico incontro con il Re a Villa Savoia in cui – dopo il Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 – il Duce fu destituito ed arrestato.
Le ricerche archivistiche sui gabinettisti evidenziano molteplici personalità di particolare carisma e rilievo – soprattutto della prima Repubblica e a cavallo di diverse fasi – maturate nella circolarità e mobilità fra alti incarichi tecnici e politici, come ad esempio Gaetano Stammati, alto funzionario pubblico, più volte capo di gabinetto (dei ministri Vanoni, Tremelloni, Colombo, Andreotti), direttore generale e Ragioniere generale dello Stato, parlamentare per diversi mandati e più volte ministro di area democristiana (si ritirò dalla vita pubblica dopo il suo coinvolgimento nella vicenda della P2). Uno straordinario grand commis del periodo repubblicano è stato l’irpino Gabriele Pescatore, di area socialdemocratica, professore di diritto della navigazione, capo di gabinetto in più governi, e soprattutto solidissimo presidente della Cassa per il Mezzogiorno dal 1955 al 1976 – protagonista per oltre due decenni dell’intervento straordinario -, successivamente Presidente del Consiglio di Stato e giudice costituzionale. Peraltro la fase finale dell’intervento per il Mezzogiorno, con lo scioglimento e la liquidazione della Cassa, fu affidata nel 1987 al consigliere di stato Giovanni Torregrossa, nominato Presidente del Comitato di gestione dell’AGENSUD, erede della CASMEZ e già capo gabinetto di lungo corso. Una trafila notevole è stata quella del salernitano Salvatore Valitutti (1907 – 1992) di militanza liberale, provveditore agli studi nominatovi da Bottai, capo di gabinetto del Ministro liberale della pubblica istruzione Gaetano Martino, consigliere di stato, parlamentare (deputato e senatore) del PLI, sottosegretario e ministro della Pubblica Istruzione negli anni 70 ed 80.
Le esperienze di gabinettista di primo piano, o quelle assai rilevanti di capo del legislativo della Presidenza del Consiglio, hanno spesso rappresentato una tappa intermedia del “cursus honorum” di giuristi prestigiosi, talvolta coronato dalla presidenza dei grandi corpi di provenienza (Consiglio di Stato, Corte dei Conti) o della Corte Costituzionale o anche sfociato nell’assunzione di incarichi ministeriali. Ne sono esempio, per citarne solo alcuni meno recenti, i consiglieri di Stato Antonino Papaldo, Vincenzo Uccellatore, Lionello Levi Sandri, Paolo Salvatore, Alberto De Roberto, Vincenzo Caianello, Giorgio Crisci, Alfonso Quaranta – quest’ultimo sempre in tandem con il ministro Gaspari e poi Presidente della Corte Costituzionale- o, per citare i magistrati contabili, Luigi Giampaolino, capo gabinettista di lungo corso e Presidente della Corte dei Conti, o avvocati dello Stato come ad esempio Giuseppe Manzari e Luigi Mazzella, importanti gabinettisti (il primo sempre in abbinata con Aldo Moro) e poi al vertice dell’Avvocatura generale (il secondo successivamente anche ministro e giudice costituzionale). Oppure figure atipiche provenienti da altri grandi corpi dello Stato come Vincenzo Milazzo, Ragioniere generale dello Stato dal 1974 al 1983 e per diversi anni Capo di gabinetto del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, con un formidabile abbinamento di due cariche strategiche, esperienza – sembra – più recentemente proposta, all’allora ragioniere generale Andrea Monorchio dal primo governo Berlusconi ma declinata dallo stesso. Almeno tre Ragionieri generali dello Stato, Carlo Marzano, e i citati Gaetano Stammati e Vincenzo Milazzo hanno svolto l’esperienza di gabinettisti ai massimi livelli, in linea con l’autorevolezza e l’expertise dell’istituto di appartenenza, interno al Ministero del Tesoro ed oggi Economia e Finanze (MEF).
La pubblicistica evidenzia anche la prolungata continuità di buona parte dei gabinettisti professionali – alcuni di riconosciuta neutralità e terzietà, altri ritenuti invece tendenzialmente politicizzati – che, nonostante la naturale fiduciarietà del ruolo, talvolta resistono non solo ai cambi di ministri e governi ma anche di maggioranze e stagioni politiche, durando ben più a lungo dei referenti che li nominano.
Si tratta di un arcipelago molto articolato, con precedenti assai variegati, governato da poche e scarne regole scritte e da solidificate regole consuetudinarie che perimetrano una vasta casistica, costellata di infinite eccezioni, con gabinettisti di lungo corso oppure titolari di incarichi che hanno rappresentato solo brevi e limitate parentesi nel contesto di più ampie carriere.
Cassese cita come esempio piuttosto clamoroso di continuismo tra regimi – non solo diversi ma addirittura opposti- quello del giurista napoletano Gaetano Azzariti (1881-1961), Presidente del Tribunale della razza durante il fascismo, poi prescelto come Capo di gabinetto da Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nel governo ciellenistico, ed egli stesso già ministro della giustizia nel governo Badoglio e poi Presidente della Corte Costituzionale (dal 1957 al 1961). Quando i suoi spiccati precedenti nel ventennio fascista venivano eccepiti criticamente a Togliatti, il leader comunista rispondeva sottolineando le grandi capacità tecniche di Azzariti e che sarebbe stato comunque “un puro esecutore” delle politiche ministeriali, nell’incerto contesto del secondo dopoguerra in cui i governi ciellenisti evitarono un’epurazione radicale e diffusa della dirigenza compromessa con il precedente regime.
Più linearmente, come esempio di continuità – anch’essa ininterrotta ma anzi valorizzata nel cambio delle stagioni politiche – può indicarsi il Prefetto Corrado Catenacci (senior) che, nato nel 1895, entrò al Ministero dell’Interno nel 1920 facendo carriera in epoca fascista e fu poi nominato prefetto giovanissimo dal governo Bonomi ciellenista. Egli assunse l’incarico di capo di gabinetto del Presidente del Consiglio Ferruccio Parri, poi di Mario Scelba – di cui divenne braccio destro – e più tardi di Antonio Segni, alternandosi nei ruoli di vertice tra il Viminale e Palazzo Chigi, successivamente nominato consigliere di Stato e in quella veste ancora Capo di gabinetto, collaboratore di fiducia di leader politici di diverso indirizzo ma sempre di alto livello.
(continua)