Tutto sbagliato, tutto da rifare. Era il famoso motto di Gino Bartali, ciclista tenace e brontolone. Questo motto si potrebbe applicare dopo oltre vari decenni allo stato politico dei Dem americani. La vittoria elettorale di Donal J. Trump non solo ha spiazzato il campo Dem ma anche tanti analisti politici della domenica.
Personalmente nutrivo una speranza per la vittoria di Kamala Harris, sul filo di lana. Così non è stato. Trump ha vinto alla grande. E’ stata una vittoria elettorale costruita su consensi non ordinari. Mi spiego. Ogni weekend da Manhattan partivano pullman, cinque, sei, sette pieni di attivisti Democratici pronti a recarsi in Pennsylvania, stato chiave per la vittoria di uno dei due candidati, per una campagna elettorale porta a porta. Pronti a convincere gli elettori indecisi a votare per Kamala Harris. Non è andata così. La Harris ha perso la Pennsylvania. Ha funzionato la strategia digitale di Elon Musk di individuare nelle aree rurali del Paese ogni singolo elettore e invitarlo a votare Donald Trump. Sarà pure. Ma il mio stesso cellulare era tempestato giornalmente da decine di messaggi da tutti gli angoli degli USA che mi invitavano a sostenere economicamente un candidato Dem o a votare per lui/lei. Niente di tutto questo ha funzionato. Gli elettori, anche i moderati, si sono turati il naso ed hanno votato per Trump. Cosa ha mosso costoro a votare per Trump?
A New York, tre i fattori decisivi. L’inflazione: l’alto costo dei generi alimentari. La crisi migratoria: migranti riversati per strada senza alcun preciso piano per allocarli in strutture cittadine per poi favorirne l’integrazione. Infine, il voto della generazione Z. Un voto fluttuante, spesso anti-establishment. Un voto quasi istintivo, spesso veicolato dai podcast di noti influencer: uno su tutti Joe Rogan. I Repubblicani hanno capito la potenza elettorale dei podcast e lo stesso Trump ha accettato di partecipare al podcast di Joe Rogan. Eclissati i media tradizionali: giornali e televisioni. Eclissato l’appello al pericolo fascista della elezione di Trump. Certo il personaggio, anche alla luce delle sue dichiarazioni elettorali, incuteva qualche timore, ma già durante il suo primo mandato avevamo avuto la prova della barriera istituzionale alle sue intemperanze ideologiche: generali pronti a difendere la Costituzione come pure i giudici locali.
Last but not least: il papocchio della sostituzione in corsa di Biden con la Harris. Di questo parlerò in un prossimo articolo, come pure della necessità di rivedere la leadership democratica di Washington. Al neo Presidente non resta che augurare buon lavoro nel rispetto della Costituzione che nel 2026 festeggerà i 250 anni.