È la scena iniziale del capolavoro del regista svedese Ingmar Bergman, in cui il cavaliere, tornato dalla Crociate, incontra la Morte. Nella sceneggiatura del film viene richiamato il passo dell’“Apocalisse” di Giovanni – “Quando l’agnello aperse il settimo sigillo nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vide i sette angeli che stavano dinanzi a Dio e furono loro date sette trombe” (Apocalisse 8. 1-5) – in cui non si parla più, come per gli altri sigilli, di qualcosa che Giovanni vede o ode (cioè del disegno di Dio nella storia rivelato dall’Agnello) ma di qualcosa che accade. Si passa al piano dell’azione e degli eventi.
«È l’alba di una fredda giornata nordica. Nel cielo ingombro di nuvole grigie e opache un falco sorvola la scogliera in cerca della preda che la natura gli ha promesso. Una preda viva e calda, non le carogne putrefatte di cui si accontentano i corvi. Sfrutta il vento e le correnti d’aria come per risparmiare le forze perché forse la caccia sarà ancora lunga. Sotto di lui le onde che si frangono sugli scogli recitano all’infinito il loro messaggio ritmato.
Il cavaliere dorme sulla spiaggia sassosa come un naufrago rigurgitato dal mare in tempesta. Al suo fianco una preziosa scacchiera coi pezzi ancora disposti nella posizione della partita interrotta.
Pur nel sonno brandisce la spada. Senza quella precauzione ora sarebbe solo polvere nella polvere.
L’insegna sulla tunica ci dice che è un crociato, ma più ancora ce lo dice il suo abbandono, come solo si osserva in chi ha molto cavalcato e ancor più combattuto e ucciso.
Pochi metri più in là, i piedi lambiti dalla risacca, dorme lo scudiero, anch’egli brandendo un’arma, mentre sul bagnasciuga le due cavalcature attendono tranquille.
Ora il cavaliere ha aperto gli occhi e fissa pensoso l’orizzonte.
Il sole è una pallida luce che spunta faticosamente dalla distesa schiumosa e plumbea del mare.
Lo scudiero si rigira sui sassi. Cerca una posizione più comoda su quel duro giaciglio e volge al cielo la fronte solcata da una lunga cicatrice chiara, ricordo del ferro saraceno.
Il cavaliere è entrato nell’acqua e si sta rinfrescando il viso e il collo, come se volesse lavar via gli incubi della notte, del viaggio, della vita.
Quindi torna al suo giaciglio, si inginocchia, giunge le mani, prega.
Non ci è dato sapere se ringrazi Dio per averlo conservato in vita, o se gli chieda aiuto per un qualche segreto proposito di vendetta.
È ora di rimettersi in cammino.
Ha aperto il sacco per riporvi le sue cose quando una figura gli si fa incontro, pallida, spettrale, avvolta in un lungo mantello nero.
“Chi sei tu?” chiede il cavaliere, la voce ferma e pacata, ormai senza paura.
“Sono la Morte.” risponde la figura col mantello.
“Sei venuta a prendermi?”
“È già da molto che ti cammino a fianco.”
“Me n’ero accorto.”
“Sei pronto?”
“Il mio spirito lo è, non il mio corpo.”
Il cavaliere s’è alzato in piedi a fronteggiare meglio il suo potente interlocutore.
La Morte avanza e dispiega il mantello come se fossero ali.
“Dammi ancora del tempo.”
“Tutti lo vorrebbero. Ma non concedo tregua.”
“Tu giochi a scacchi, non è vero?”
“Come lo sai?”
“Lo so. L’ho visto nei quadri, lo dicono le leggende.”
“Sì, anche questo è vero, come è vero che non ho mai perduto un gioco.”
“Forse anche la Morte può commettere un errore.”
“Per quale ragione vuoi sfidarmi?”
“Te lo dirò se accetti.”
“Avanti allora…” lo invita la Morte.
I due siedono alla scacchiera e si studiano in silenzio.
“Perché voglio sapere fino a che punto saprò resisterti, e se dando scacco alla Morte avrò salva la vita.” riprende il cavaliere.
Ha preso in mano due pedoni e sorteggia le parti. “Ti tocca il nero.” dice il cavaliere.
“Si addice alla morte, non credi?”
Ora i pezzi sono sistemati nella posizione d’inizio.»
Ingmar Bergman, Il settimo sigillo.