Da poco più di un mese è nelle librerie questo piccolo e allarmato libro della storica Anna Foa: “Queste pagine contengono le riflessioni di un’ebrea della diaspora difronte a quanto sta succedendo in Israele e in Palestina. Esse nascono dal dolore per l’eccidio del 7 ottobre e per quello per i morti e le distruzioni della guerra di Gaza. È lo stesso dolore per gli uni e per gli altri. E ancora, nascono dalla preoccupazione per il crescente antisemitismo che si estende nel mondo”.
«Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza tuttavia finora riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora.
Il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha scatenato la sua offensiva terroristica al confine con la Striscia di Gaza, il capo del governo era dal 2022 Benjamin Netanyahu, di nuovo al potere in seguito ad un accordo con i partiti della destra più estrema in seguito al quale si mantiene ancora al governo. Uno è il partito Otzma Yehudit (Potere ebraico), rappresentato dal ministro Itamar Ben Gvir. Esso deriva dal partito Kach, di cui Ben Gvir è stato dirigente, un partito messo fuorilegge negli anni Ottanta il cui leader, il rabbino israelostatunitense Meir Kahane, è stato espulso dalla Knesset in base ad una legge contro il razzismo.
Ben Gvir stesso è stato più volte arrestato e processato per i suoi comportamenti estremi ed illegali. Nel 2007 è stato condannato per istigazione al razzismo. Sostiene la necessità di creare la grande Israele e di espellerne tutti i palestinesi. È stato coinvolto nelle minacce a Rabin che hanno creato il clima per il suo assassinio nel 1995. (…) L’altro ministro estremista è il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito sionista religioso Tkuma, anche lui coinvolto in atti illegali ed arresti, razzista e sostenitore dell’espulsione degli arabi, attivo fautore della creazione di sempre nuovi insediamenti nella West Bank. Fra gli altri suoi atti, il tentativo di bloccare totalmente gli aiuti alla Striscia di Gaza.
Questi due personaggi sono coloro che sostengono il governo di Netanyahu dopo il dicembre 2022 e ne determinano la politica. Se si dimettessero il governo di Netanyahu cadrebbe.
Se questa è la linea politica del governo dopo il dicembre 2022, non c’è da stupirsi se il 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno attaccato i kibbutzim posti vicino al confine con Gaza, la maggior parte delle divisioni dell’esercito israeliano fossero state spostate sul confine con la West Bank, e il confine con Gaza lasciato sguarnito. L’esercito doveva servire a proteggere gli insediamenti illegali e le aggressioni dei coloni ai palestinesi su quel confine, in previsione di un ulteriore avanzamento in quello che dovrebbe diventare lo Stato palestinese, non a proteggere i kibbutzim sulla Striscia: tutti formati da israeliani laici e di sinistra, impegnati nel mantenere rapporti di amicizia e aiuto con i palestinesi, insomma ben diversi dai coloni religiosi nella West Bank.
Un governo appena decente avrebbe dovuto, di fronte all’eccidio del 7 ottobre, preoccuparsi in primo luogo degli ostaggi. Avrebbe dovuto, nella sua politica verso i palestinesi, distinguere i terroristi di Hamas dai palestinesi dell’ANP, e attuare immediatamente una politica nei confronti di questi ultimi volta ad isolare Hamas, non a farne crescere la reputazione come il baluardo della resistenza. Questa non è stata la politica di questo governo. E come avrebbe potuto, se l’unico suo obiettivo è sbarazzarsi dei palestinesi e creare la grande Israele, voluta da Dio?
Da mesi, mentre gli ostaggi muoiono e l’esercito va smentendo ogni giorno la leggenda della sua efficienza e tanti, troppi soldati muoiono anche per fuoco amico, Netanyahu e i suoi ministri insistono in questa politica. La trasformazione di Israele in un paese autoritario avanza, la polizia attacca ogni manifestazione di dissenso, le prigioni sono piene di cittadini arabo-israeliani e dei Territori detenuti senza processo, le dichiarazioni razziste dei ministri si moltiplicano, non senza conseguenze sulla società tutta. Una parte non indifferente della società civile reagisce nonostante le crescenti difficoltà: chiede la cessazione delle ostilità, la liberazione degli ostaggi, le dimissioni del governo. Ci sono militari che rifiutano di andare a combattere a Gaza, preferendo la prigione. Si è formata addirittura un’organizzazione di genitori che invita i figli a rifiutare di combattere questa guerra.
Basterà a rallentare o a fermare il suicidio di Israele? Come fermarlo se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?»
Anna Foa, Il suicidio di Israele.