Una delle questioni più ricorrenti nel dibattito pubblico italiano delle scienze amministrative, ma anche nella communis opinio, è quella risalente e ancora attualissima della crisi ed inefficienza della burocrazia, anzi delle “burocrazie pubbliche” al plurale, della esasperante lentezza e farraginosità delle sue procedure, della defatigante pesantezza del vincolo burocratico e della conseguente insoddisfazione dei cittadini. Questo stato di cose contribuisce a determinare una sorta di paralisi procedurale, perniciosa per il buon andamento dell’economia e lo sviluppo infrastrutturale del Paese e per la stessa vita quotidiana dei cittadini-utenti dei servizi, anche con riflessi nel settore sanitario e delle autorizzazioni ambientali (vedi ad esempio la complessità dei procedimenti di bonifica, delle VIA e VAS, del dragaggio dei sedimenti nelle aree portuali, ecc.)
Nei sondaggi di opinione e secondo i rapporti CENSIS – rileva Sabino Cassese, uno degli studiosi più attenti al tema – la burocrazia italiana gode di scarsa fiducia e simpatia, ad eccezione delle forze dell’ordine molto stimate. Negli organi di informazione le amministrazioni sono menzionate solo negativamente per la inefficienza e lentezza dei procedimenti come, ad esempio, per i finanziamenti stanziati e non spesi per le opere pubbliche. La burocrazia viene rappresentata come una casta privilegiata ed improduttiva che rappresenterebbe l’aspetto deteriore della Pubblica Amministrazione. La inadeguatezza dell’amministrazione si manifesta sia nella lentezza e scarsa capacità di spesa dello Stato esecutore di opere ed infrastrutture che nella pesantezza dell’amministrazione regolatrice e titolare di procedimenti amministrativi, sia nell’erogazione di prestazioni e servizi che talvolta anche nella gestione delle pratiche più elementari.
Nel corso degli ultimi decenni – per limitarsi al periodo repubblicano ma anche precedentemente- sono stati esperiti molteplici tentativi di riforma della pubblica amministrazione, mai compiutamente realizzati con pienezza di risultati. Tuttavia alcuni di essi hanno meritoriamente aperto filoni innovativi, indicato al legislatore tracce e tracciati, stimolando adattamenti e miglioramento incrementali e gettando il seme di cambiamenti, almeno parziali, con l’innesto di nuove idee ed istituti sulle stratificazioni preesistenti.
Lo storico dell’amministrazione Guido Melis titola realisticamente il paragrafo di un suo scritto “Il riformismo amministrativo in Italia: storia di vinti”. Lo studioso Stefano Sepe segnala che la riforma per antonomasia (quella della P.A.) “sempre solennemente promessa, sistematicamente sbandierata come prossima, più volte data per fatta, è ancora al di là da venire. Resta la riforma che verrà ma non si vede mai, similmente al Godot di Samuel Beckett”.
A ritroso per il ventennio fascista vale la titolazione eloquente che Alberto De’ Stefani, valente studioso e ministro delle finanze di Mussolini, diede al suo memoriale (pubblicato nel 1963) sul progetto di riordino della burocrazia da lui proposto al regime e cestinato: “Una riforma al rogo”.
Cassese richiama sul punto le emblematiche memorie del Presidente del Consiglio francese Andrè Tardieu nel 1929/30, secondo cui “quando vedo segni di tensione politica in Parlamento, annuncio una riforma amministrativa. Tutti ridono e gli animi si rasserenano” (da Cassese S., “Miseria e nobiltà d’Italia”, Milano, 2024, pag. 179).
Lo stesso Sepe, dedicando una agile monografia alla memoria dell’insigne giurista M. S. Giannini (“Massimo Severo Giannini”, Ed. Scientifica, Napoli,2013), tra l’altro impegnato nel 1979-80 in un incisivo ma sfortunato tentativo di riforma come ministro della Funzione Pubblica ed autore del famoso “Rapporto sullo stato dell’amministrazione, che ne prende il nome – poi “silurato” dalla sua stessa area politica di riferimento- la sottotitola emblematicamente “il percorso di un riformatore (troppo) lungimirante”. Il “troppo”, sia pure pudicamente racchiuso tra parentesi, esprime le motivazioni frustranti dell’ insuccesso di quella intensa ma breve stagione riformatrice che – soprattutto per l’autorevolezza indiscussa del suo protagonista – aveva acceso molte fiduciose aspettative ma veniva bruscamente interrotta dai vertici politici appena dopo il suo promettente avvio.
La questione è da sempre nell’agenda e nei programmi di tutti i governi, come documenta plasticamente la circostanza che, dal 1950 ad oggi, si sono avvicendati nella struttura dei governi italiani – sia pure con diverse denominazioni – decine di ministri senza portafoglio e sottosegretari per la Riforma burocratica, della Funzione pubblica o della Pubblica amministrazione, tra cui molti esponenti politici di peso ed anche una serie di giuristi di assoluto rilievo.
Inizialmente tale incarico senza portafoglio veniva conferito per obiettivo e a termine, con il compito specifico di progettare e realizzare la sempre attesa “riforma burocratica”, poi, a fronte dell’acquisita complessità e difficoltà del ruolo, è stato istituzionalizzato in via permanente fino a configurarsi, stabilmente e di fatto, come Ministro del “lavoro pubblico” in senso lato (ricomprendendovi naturalmente la riforma burocratica).
Spesso l’incarico della Funzione pubblica è stato associato ad altre deleghe governative, in qualche modo collegate, come quella per gli Affari Regionali o, più recentemente, per l’Innovazione e Semplificazione – con un significativo legame tra la riforma amministrativa ed i temi emergenti che con essa si intrecciano-, pur nella abituale e dannosa discontinuità tra ministri che si alternano di governo in governo, con una permanenza media poco più che annuale (pur con significative eccezioni di durata e, in qualche caso, di ritorno allo stesso incarico).
Per oltre un trentennio, dagli anni ’50 ai primi ’80, il Ministro senza portafoglio per la Pubblica amministrazione è stato supportato dagli uffici della Presidenza del Consiglio, operando su delega diretta del Capo del Governo, come centro propulsore delle iniziative di riforma della P.A. Dal 1983, pur rimanendo nell’ambito di Palazzo Chigi, gli è stato posto a supporto – per effetto della legge quadro sul pubblico impiego dello stesso anno – un apposito Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio, insediato nel rinascimentale Palazzo Vidoni Caffarelli di Corso Vittorio Emanuele, con una più adeguata struttura amministrativa e dirigenziale.
Pur senza portafoglio, cioè priva della titolarità di un dicastero ma incardinata nella Presidenza del Consiglio, la Funzione Pubblica è considerata incarico governativo di peso – superiore a quello di altri ministri, titolari di portafoglio ma con rilievo secondario – sia per la visibilità politica e mediatica delle materie trattate, sia per la sua diretta afferenza al vertice del governo, sia per i rapporti con il vastissimo mondo del pubblico impiego e dei suoi sindacati anche per la gestione delle contrattazioni nazionali.
Si sono succeduti nell’incarico diversi politici di rilievo – nella prima Repubblica, per lo più democristiani, ed anche nella fase successiva- tra cui Tupini, Gonella, Bo, Medici, Preti, Gaspari, Silvio Gava, Gui, Morlino, Pomicino, Brunetta. Tra essi si distingue alla Riforma burocratica, negli anni ’70, il giovane Francesco Cossiga, alle tappe intermedie del “cursus honorum” che poi dieci anni dopo lo vedrà Presidente della Repubblica. Hanno ricoperto tale incarico politici che sono stati anche importanti giuristi – come Scoca, Lucifredi, Frattini, Piazza, Bassanini-, un ingegnere scienziato (Nicolais) e, diverse volte, tecnici del diritto di chiara fama, quali Giannini, Paladin, Cassese, Mazzella, Patroni Griffi – alcuni poi divenuti giudici costituzionali o presidenti del Consiglio di Stato – ritenendosi tale ruolo particolarmente impegnativo sotto il profilo delle competenze richieste.
In periodo recente hanno avuto maggiore durata nell’ incarico i ministri Renato Brunetta, Franco Bassanini e Remo Gaspari, tornati a rivestirlo due volte in fasi diverse, così come lo ha esercitato in modo prolungato la ministra Marianna Madia (2014-18) in continuità nei governi Renzi e Gentiloni.
In effetti, se si valutano i risultati conseguiti dai diversi Ministri in azione, viene in evidenza non tanto e non soltanto il colore politico e lo spessore individuale delle varie personalità, quanto piuttosto la essenziale variabile della loro durata, necessaria precondizione per incidere in un settore di tale complessità e delicatezza da richiedere impegni e politiche continuative di medio/lungo periodo, per cui i risultati devono essere valutati in stretta correlazione alla durata del mandato esercitato.
Tommaso Morlino, politico democristiano e giurista di spessore (poi Presidente del Senato), da Ministro per gli affari regionali e la pubblica amministrazione – nei governi Moro di metà anni ’70 – fu il principale artefice della seconda fase del decentramento regionale, attivata dalla legge delega n.382/1975 con il Dpr 616/1977, redatto secondo il criterio delle funzioni e per settori organici (da una Commissione tecnica insediata dallo stesso Morlino e presieduta dal prof. Giannini).
I ministri “tecnici” di maggiore autorevolezza, che probabilmente hanno lasciato la più significativa traccia a Palazzo Vidoni, sono stati due insigni giuspubblicisti italiani, Massimo Severo Giannini (1979-80),nei due governi Cossiga, e Sabino Cassese (1993-94) nel governo Ciampi a composizione semi-tecnica, il secondo allievo e continuatore del primo; entrambi promotori di essenziali innovazioni, come la contrattualizzazione del pubblico impiego, ed autori di importanti proposte riformatrici solo in parte realizzate.
Della breve ma intensa esperienza governativa di Giannini – alla fine degli anni ’70 – si ricorda il citatissimo “Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato”, presentato nel novembre 1979, che associava ad un’analisi rigorosa ed organica delle annose problematiche una serie di proposte innovative per riforme di filiera. Il celebre rapporto, muovendo dal presupposto che l’Italia è uno dei Paesi meno pronti ad adeguarsi al forte mutamento di ruolo delle amministrazioni pubbliche, batteva molto sull’esigenza di una rivisitazione generale degli apparati pubblici, in sintonia con quando stava già avvenendo negli altri Paesi dell’Occidente europeo. Giannini scriveva nel 1979 che lo Stato non era in grado di presentarsi come “un amico sicuro ed autorevole” ma era invece avvertito dai cittadini-utenti come una “creatura ambigua, irragionevole, lontana”. Malgrado l’acutezza, lucidità ed il rigore metodologico del rapporto, il suo impatto sul ceto politico – dopo i primi e superficiali apprezzamenti – si rivelò deludente, anche per lo scarso impegno prestato del governo su questo versante oltre che per lo sfavore manifestato dal Consiglio di Stato, contrario alla tesi di un ulteriore decentramento alle Regioni di compiti e funzioni amministrative, invece fortemente sostenuta dal Ministro.
Dopo circa un anno di intenso lavoro, il professore Giannini, che era stato designato come esperto di altissimo livello nella delegazione ministeriale socialista, veniva clamorosamente escluso dal successivo governo Forlani (1980) – per imperscrutabile volontà del segretario Craxi – né tantomeno reinsediato nei successivi esecutivi presieduti dallo stesso leader socialista, nonostante l’imponente lavoro di riforma egregiamente impostato. Veniva così inspiegabilmente bruciata dalla politica dell’epoca – in modo cinico e brutale – una delle più promettenti opportunità di un serio e profondo riordino dell’amministrazione, affidata alla competente iniziativa dell’intelligenza più lucida allora disponibile.
Quello di Giannini è stato forse il più coraggioso e generoso tentativo – forse prematuro e per questo non riuscito – di scuotere la pigrizia e l’immobilismo della classe politica rispetto alla avvertita esigenza di ripensare in profondità l’assetto della pubblica amministrazione. L’impianto metodologico e propositivo del Ministro professore era stato accolto positivamente dalla dottrina, dai media e, nella fase iniziale, dalla stessa classe politica – che approvò al Senato un incoraggiante ordine del giorno – ma poi le sue avanzate proposte si arenarono in cassetto, pur tracciando utili solchi che vennero in seguito parzialmente ripresi dalla legislazione successiva. Nell’immediato a Massimo Severo Giannini successero il democristiano Clelio Darida e poi il socialdemocratico Dante Schietroma, dei cui brevi mandati non vi è memoria.
Alcuni lustri dopo Sabino Cassese, già successore di Giannini alla cattedra di Diritto amministrativo all’Università di Roma, diveniva ministro della Funzione Pubblica nel governo Ciampi (1993-94), a composizione tecnico-politica, che succedeva a quello presieduto da Giuliano Amato nella seconda fase del convulso biennio di transizione dalla prima alla seconda Repubblica, segnata – oltre che da tangentopoli – anche da una gravissima crisi della finanza pubblica. Cassese predispose le possibili iniziative di riforma esperibili nel breve periodo, strettamente collegate alle politiche di bilancio – inserendone pezzi incisivi nella legge Finanziaria del 1993 – saldate ad obiettivi di razionalizzazione, risparmio e risanamento finanziario, imperiosi in quella fase di massima espansione del debito pubblico. Riuscì tra l’altro ad approvare la Carta dei servizi pubblici, come una sorta di patto tra amministrazione erogatrice e cittadinanza, nell’obiettivo di valorizzare la centralità del cittadino-utente in un’ottica di efficacia ed economicità.
Il Ministro Bassanini, alcuni anni dopo, ha segnato una fervorosa anche se non incontroversa stagione riformatrice – caratterizzata dalle copiose normative del 1997 che portano il suo nome (leggi-delega cosiddette uno, bis e ter) – finalizzata soprattutto ad implementare il federalismo amministrativo, con un ampio ventaglio di decreti legislativi di attuazione incidenti su tutte le strutture statali e territoriali – mediante la ridefinizione dell’assetto delle competenze in un’amplissima serie di materie – realizzando un vasto conferimento di compiti e funzioni, cui corrispondeva il riordino e lo snellimento dell’amministrazione centrale per ministeri ed agenzie.
Veniva tra l’altro discutibilmente introdotta la regola dello spoils system (“sistema delle spoglie o del bottino”) dei dirigenti di vertice – in particolare Capi Dipartimento e Segretari generali dei Ministeri – poi consolidato dalla “legge Frattini” del 2002, con cui si è determinata una perdurante precarizzazione dell’alta dirigenza, destabilizzata e posta alla mercè della politica. Secondo una autorevole interpretazione, il meccanismo delle spoglie veniva quasi a costituire una sorta di compensazione attribuita alla politica di governo nella stessa travagliata fase in cui i partiti avevano da poco perso il controllo e la gestione discrezionale delle partecipazioni statali e delle banche pubbliche, dismesse e privatizzate nei primi anni Novanta.
Sul sistema delle spoglie si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n.233/2006 e a più riprese, che lo ha legittimato come modello limitato e circoscritto, statuendo tuttavia che esso può essere applicato solo alle prime linee dirigenziali dei Ministeri, escludendo dal suo ambito la media dirigenza e le posizioni apicali delle società, delle Regioni e degli enti del servizio sanitario (come da pronunce del giudice delle leggi sulle normative di alcune Regioni).
Nell’articolata serie di Ministri della Funzione pubblica una significativa incidenza può attribuirsi all’ effervescente Renato Brunetta, che ha ricoperto due volte l’ incarico – per oltre tre anni nel governo Berlusconi (2008-11) e, più recentemente, in quello Draghi (2021-22) – assumendo, tra l’altro, la paternità del decreto legislativo 150/2009 di innovazione dei controlli interni con il sistema di valutazione della performance del personale, mediante cicli di misurazione con appositi organi e procedure, a cui debbono necessariamente collegarsi benefici ed incentivi di retribuzione.
Del prolungato mandato quadriennale della ministra Madia – nei governi di centrosinistra Renzi e Gentiloni – emergono le innovazioni recate dalla legge delega n.124/2015, tra cui si segnalano la riduzione e la imperfetta riforma delle società pubbliche partecipate (Testo unico n.175/2016), la cittadinanza digitale con il PIN unico per accedere on line ai servizi della pubblica amministrazione. Ancora l’adozione del Freedom of information act (FOIA) per la trasparenza, che riconosce a tutti il diritto di conoscere atti e documenti della amministrazione e la previsione di ulteriori semplificazioni burocratiche, come la rivisitazione dei meccanismi della conferenza di servizi, l’introduzione di moduli unici standardizzati, il silenzio-assenso tra amministrazioni ed importanti modifiche apportate al Testo unico del pubblico impiego (Dlgs 165/2001). Nel 2018 sono stati approvati ventisei decreti attuativi della “riforma Madia”, tra cui la revisione del T.U. del pubblico impiego che – come effetto principale – ha consentito la stabilizzazione nei ruoli a tempo indeterminato di alcune decine di migliaia di lavoratori precari, oltre al rinnovo del contratto di lavoro per i dipendenti pubblici.
Uno dei provvedimenti più rilevanti è certamente il decreto legislativo n. 175/2016, denominato “Testo unico sulle società a partecipazione pubblica”, che – pur non essendo un vero testo unico in senso tecnico – ha disciplinato organicamente il settore, regolamentando sia le società-imprese che gli enti di erogazione o servizi, per un totale di circa settemila società (con oltre settecentomila dipendenti e diciassettemila amministratori). Questa normativa disciplina innovativamente l’ampio arcipelago delle società pubbliche con caratteristiche tra loro molto diverse, inserendo elementi pubblicistici nel modello societario – con una loro parziale sottrazione al regime del codice civile ed una contaminazione delle regole privatistiche con quelle di diritto pubblico – ed ha introdotto utili regole e vincoli ma anche molteplici rinvii ed eccezioni alla disciplina, che così non risulta effettivamente uniforme.
Nel periodo più recente, i Ministri della Funzione pubblica succedutisi (Brunetta, Dadone ed oggi Zangrillo) si sono cimentati con posizioni diverse sul tema innovativo della regolamentazione della forma di lavoro agile – emerso prepotentemente con la pandemia – che ha conosciuto una rapida e travagliata evoluzione nella disciplina, oggi in fase di graduale assestamento in regime ordinario, nell’ambito più complessivo processo di transizione verso modalità nuove e non tradizionali di organizzazione del lavoro.
Si tratta ora di riuscire a cogliere e misurare nella loro capacità di innesto le potenzialità offerte dalle notevoli trasformazioni in atto, tra cui il massiccio reclutamento straordinario di personale pubblico, anche a tempo determinato – finalizzato al potenziamento ed al ringiovanimento delle strutture -, il forte avanzamento del processo di digitalizzazione all’insegna della “transizione digitale” e la verifica del percorso di semplificazione, accelerazione e snellimento delle procedure nell’ambito della complessa ed impegnativa attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (2022-26),di cui a breve si valuteranno gli esiti anche nel delicato impatto con la pubblica amministrazione.
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