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LE CITAZIONI: Gatto, quella malanotte del ‘54 a Salerno

by Ernesto Scelza
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È la prima cronaca dell’alluvione che la notte del 25 ottobre del ’54 sconvolge Salerno e la sua costa, inviata dal poeta Alfonso Gatto, salernitano, al settimanale “Epoca” e pubblicata sul numero 231 della rivista, il 31 ottobre. I morti saranno più di trecento. Tanti raccolti nella chiesa dell’Annunziata: “Qui i morti a braccia aperte sulla deriva del fiume che ha rotto di sotto in su la strada di Fusandola o precipitati con le case dal salto della Spinosa, si sono fermati contro gli alberi, contro i portici del teatro, facendosi raccogliere e comporre nella grande pietà delle prime ore”.

«Ho cercato invano di telefonare a mia madre. Il telegrafo si ferma a Napoli mi hanno detto. Migliaia di telegrammi, di piccoli soldati, di piccoli barbieri, di piccoli giornalisti, di piccoli impiegati, di piccoli avventurieri – siamo tutti piccoli, è vero? – aspettano di varcare il fronte delle acque. Non si passa.
Da Castellammare fino ad Amalfi, forse: ma da Maiori a Capo d’Orso e attraverso le montagne per la Sella di Chiunzi che appena un mese fa correvo in uno dei più dolci pomeriggi di questa mia ultima vita, non si passa. Ci sono i morti che non aspettano più notizie, ci sono le acque, il fango, il silenzio.
Salerno è un nome, il nome del ’43, P511 nome dello sbarco: un golfo, ove tanta civiltà è passata e la morte vi sta di casa per renderle più nuova e inaspettata la vita ogni giorno. Laggiù passano inverni miti quali primavere e i monti, dagli Alburni ai Lattari, puri come Dolomiti, staccano il cielo alla soglia stessa del mare.
Ora, a Ponte Surdolo, ove si inizia la dolce campagna di Castagneto, di Badia, di Rotolo, di Dupino, di Santi Quaranta, è crollato il ponte della ferrovia che nemmeno alleati e tedeschi riuscirono a colpire: e Alessia, il piccolo paese che odorava di erbe, verde tutto dalle porte alle finestre, allinea i suoi morti nella chiesetta una volta abitata solo da bambini. Sono nomi che gli italiani hanno imparato a conoscere questa sera, mal scritti e storpiati nei messaggi che hanno raggiunto Milano e Roma: per me son nomi vecchi che timidamente azzardo nel suono delle parole per sentirmeli rinascere ancora dentro, caldi del loro silenzio e della loro pace antica, Ed è l’unico bene che resta allo straniero che non sa più nulla – della sua casa, delle sue tombe, come dieci anni fa.
Sono note, scritte in fretta in questa notte. Il giornale deve uscire e io sono nato a Salerno, conosco Piazza Luciani, e Porta Catena, quel palazzo Olivieri che dalla strada di Vietri come un piccolo grattacielo scende al mare di via Igea: sono i luoghi del nubifragio ed erano i luoghi dell’amore, delle prime malinconie affacciate con la testa sulle mani alla terrazza del golfo. Mi hanno telefonato molti amici. Salerno sono io, Amalfi è Afeltra intento al Corriere a pensare grandi titoli di lutto per la sua piccola repubblica. Curioso, su due piedi, investirci del pericolo che alla fine credono ancora più grande. Ci resta quasi il sospetto di non meritare il richiamo e l’allarme, interrotto da questa parentesi di silenzio al di là della quale i vivi abituati a resistere alla guerra, al saccheggio, alla fame, ai negri, vivono ora in compagnia del nubifragio.
E’ una pazienza che non avemmo il tempo di soffrire, che non volemmo soffrire, forse, fuggendo vent’anni fa a cercar fortuna e che solo nostra madre rispecchia nel suo volto, calma fino al sorriso, meravigliata che lo stesso nome della sua città ove non avviene mai nulla possa diventar leggenda ed essere sulla bocca di tutti. “Perché avete fatto tanto chiasso?” mi dirà.
“E’ passata anche questa, ma per la miseria che è rimasta, per i morti che più non tornano, sarete buoni a invocare almeno il ricordo, domani?”. Come prometterlo? E dipende da noi la risposta?

Ora si fanno solo domande. E alla terra che tutti sanno sommariamente propizia e ubbidiente per i suoi miti antichi ancora alle facili suggestioni delle nuove favole, daremo solo il rammarico di saperla esposta per la sua stessa impervia bellezza all‘inclemenza della natura, come se essa debba sempre rimaner natura, nonostante che la storia di tutte le civiltà le abbia segnato il volto di lapidi? Io non so, ma in quest’ora notturna, a spiegarla sull’atlante azzurro nel suo ininterrotto spaccato di case, di campagne, di marine, forse ricomposta dall‘aria misericordiosa in una nuova pace, la mia terra mi pare dica che la sua tetra soavità, il fiore del suo incantesimo, le nasce ancora dall’abbandono ove tutti vanno a coglierla per un giorno per una stagione, sicuri quasi di rispettarla col non prometterle nulla. Sulla spiaggia di Zenone camminano ancora i bambini che mangiano la minestra nell’elmetto di un negro: accanto ai giardini incantati di Wagner precipita la notte del caos. Occorre forse veramente piantare sulle cime dei nostri monti, da San Liberatore alla Stella, molte bandiere d’Italia.»

Alfonso GattoDolore per la mia terra.