Nel 1955 Arthur Koestler si fece promotore in Inghilterra di una campagna per l’abolizione della pena di morte che mobilitò opinione pubblica e Parlamento. Due anni dopo, in Francia, Manès Sperber, amico di Malraux, riprese il dibattito in una pubblicazione che conteneva un intervento di Albert Camus, “Réflexions sur la peine capitale”. Ne ripropongo parte in occasione del 10 ottobre, “Giornata mondiale contro la pena di morte”.
«L’abolizione della pena di morte dovrebbe essere richiesta dai membri coscienti della nostra società, per ragioni di logica e di realismo. Di logica, in primo luogo. Decretare che a un uomo debba essere inflitto il castigo definitivo, equivale a stabilire che quest’uomo non ha più nessuna probabilità di riparare. È qui, lo ripetiamo, che gli argomenti si affrontano ciecamente e si cristallizzano in una sterile opposizione. Ma nessuno di noi è in grado di dire l’ultima parola su questo punto, giacché siamo tutti giudici e parti in causa. Ne consegue la nostra incertezza sul diritto a uccidere e l’impossibilità in cui ci troviamo di convincerci reciprocamente. Senza innocenza assoluta non esiste giudice supremo. Ora, noi tutti abbiamo fatto del male nella nostra vita, anche se questo male, senza cadere sotto i colpi della legge, si è spinto sino al delitto occulto. Non esistono giusti, ma soltanto animi più o meno provvisti di giustizia. Vivere, se non altro, ci permette di esserne coscienti e di aggiungere alla somma delle nostre azioni quel bene che compenserà, almeno in parte, il male che abbiamo seminato nel mondo. Questo diritto alla vita, che coincide con la possibilità di riscatto, è il diritto naturale di ogni uomo, persino del peggiore. L’ultimo dei delinquenti e il più integro dei giudici si ritrovano qui fianco a fianco, egualmente infelici e solidali. Senza questo diritto la vita morale è assolutamente impossibile. Nessuno di noi, in particolare, è autorizzato a disperare di un uomo, chiunque egli sia, se non dopo che la morte che ne trasforma la vita in destino, e consente allora il giudizio definitivo. Ma pronunciare il giudizio definitivo prima della morte, decretare la resa dei conti quando il creditore è ancora vivo, non spetta a nessun uomo (…).
I secoli illuminati, come si suol dire, volevano sopprimere la pena di morte con il pretesto che l’uomo è fondamentalmente buono. Naturalmente non lo è (è peggiore o migliore). Dopo vent’anni della nostra superba storia, lo sappiamo bene. Ma proprio perché non lo è, nessuno di noi può erigersi a giudice assoluto e decretare l’eliminazione definitiva del peggiore dei colpevoli, poiché nessuno di noi può attribuirsi l’assoluta innocenza. La sentenza capitale spezza l’unica solidarietà umana indiscutibile, la solidarietà contro la morte, e non può essere legittimata che da una verità o da un principio che si ponga al di sopra degli uomini.
Proibire la condanna a morte di un uomo significherebbe proclamare pubblicamente che la società e lo Stato non sono valori assoluti, significa decretare che nulla li autorizza a legiferare in modo definitivo, né a produrre l’irreparabile (…). Al momento di concludere, vorrei dunque ripetere che non sono le illusioni sulla bontà della natura, né la fede in un’età dell’oro a venire, che fondano la mia opposizione alla pena di morte. Al contrario l’abolizione mi sembra necessaria per motivi di pessimismo ragionato, di logica e di realismo.»
Albert Camus, Riflessioni sulla pena di morte.