E’ stato sfortunato Schillaci, fino alla fine. Se ne va a soli 59 anni ma in realtà le sue pene erano cominciate ben prima. Una specie di underdog del calcio. Acclamato per una breve, brevissima, stagione. Fu utilizzato, dai sentimenti degli italiani, come un surrogato di Paolo Rossi. Non c’era altro e scelsero lui. Segnava quasi per caso, anche se Boniperti lo sperò non era certo l’erede di Anastasi. Molto più forte Pietruzzo e molto differenti anche i tempi.
L’ Italia degli anni ‘60 – ‘70 ancora viveva il pallone come un racconto popolare. E Anastasi, Causio, Cuccureddu e altri, ragazzi meridionali che giocavano al nord, venivano considerati come dei riferimenti dai ragazzi del Sud che emigravano lì per lavorare. Era un modo per sentirsi parte di quel nuovo mondo, spesso ostile, il tentativo forse un po’ ingenuo di essere accolti. Alle fatiche della catena di montaggio si aggiungevano le difficoltà fuori dal lavoro. La sanità, la socialità, la difficoltà per affittare un alloggio. Con quei cartelli che respingendo a priori la richiesta d’affitto a chi era del sud ne respingevano di fatto l’ansia di integrazione. E il calcio, quei giocatori meridionali che portavano la Juve ai successi, diventavano un modo per dire, siamo come loro, veniamo dalle stesse campagne e paesi. E tifiamo per loro e per I bianconeri.
Poi per fortuna quegli operai divennero una classe. E perfino i protagonisti della più grande insorgenza sociale che dal dopoguerra il nostro Paese ricordi. Ma furono anni duri e anche formativi.
L’Italia di Schillaci, sia quella calcistica che il Paese, era una Italia diversa. Già priva di tanti tessuti solidali, lanciata verso un futuro che sarebbe stato di individualismo ed egoismo. Diverso anche dagli anni ‘80. Lì – anche con le durezze che arrivavano da Gran Bretagna e Usa – sopravviveva una contesa. Anche il conflitto politico e sociale era ancora aperto, le diverse parti ancora esprimevano una qualche idea del mondo.
E anche il calcio stava, con tutte le sue contraddizioni, nel clima. Un clima quasi plasticamente esemplificato dalla contesa in quegli anni tra Napoli e Milan. Le grandi risorse di Berlusconi che costruisce un Milan stellare e dominante. E il Napoli di Diego che per portarlo qui fa di fatto una specie di colletta cui concorre anche il Banco di Napoli. Anni ‘80 che, come il Milan, diffondevano dominio e nuovi comportamenti ma che, come Diego alla testa degli azzurri, vedevano anche germi di residua e orgogliosa resistenza.
Il tempo del povero Totò fu solo una fugace illusione. Come le sue sei reti – alcune anche un po’ casuali – che non servirono a rendere davvero magiche quelle notti. Fu tutto un surrogato. Come il Paese, che stava entrando nella sua stagione più controversa e difficile. Totò Schillaci in fondo incarnò quella dolente transizione. L’illusione di magnifiche sorti e progressive che in realtà si è risolta in un netto peggioramento.
Vero, il mondo cambiava e il nostro Paese non poteva non risentirne. E certo oggi, pur nei tempi aspri che viviamo, le grandi innovazioni tecniche soprattutto, se governate, potrebbero perfino aprire un futuro di liberazione. Una sfida, certo. Ancora una volta sono le grandi tendenze della Storia – prime fra tutte il lavoro e il capitale – che confliggendo possono però spostare tutto in avanti. Sull’esito di questa contesa vedremo, al momento non sembra neppure vi sia da parte del lavoro la forza di giocarla. Nel campo c’è solo il capitale. E però la partita è aperta.
Non mi sembra un caso che in questo futuro Schillaci non ci sarà. Sfortunato fino all’ultimo, figlio di quegli anni in cui calcio e Paese smarriti stavano a chiedersi da che parte andare. Calcio e vita privata, dopo quella fragile e ipocrita illusione, non furono clementi con Totò. Non saprei dire se poteva forse avere qualcosa di meglio dalla vita. Forse in questi ultimi anni sembrava felice. Quello che so è che la costante della sua esistenza sfortunata è rimasta fino alla fine la stessa. Con buona pace dei tanti che in queste ore ne celebreranno la fine con la retorica di quegli occhi spiritati.
Chiudili finalmente quegli occhi, Totò, e prova a rasserenarti. Togli ogni alibi a chi con cinismo ti ha celebrato, per il proprio interesse materiale o emotivo, solo due volte, oggi e in quel mondiale fallito.