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“La pioggia e il vento” (IV)

quarta parte

by Lucia Severino
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L’Autrice, scomparsa da tempo, artista, scrittrice, combattente per la libertà nell’Italia del nord, ultimò queste pagine negli anni ’70 del secolo scorso.

(Segue da: https://www.genteeterritorio.it/la-pioggia-e-il-vento-i/https://www.genteeterritorio.it/la-pioggia-e-il-vento-ii/https://www.genteeterritorio.it/la-pioggia-e-il-vento-iii/)

 

Regent’s Street. Sento che maturano miracoli. Il sole, le bandiere, ad un angolo sul cartellone turchese delle Olson Lines c’è l’ombra di lui alta.

Vado cercando i segni della sua presenza; ma il passato scivola nei suoi spazi con un rumore secco di tessere che s’aggiustano, sbatte un’imposta, già si posa la polvere.

Non più affannata fra domani e memoria a fabbricare zodiaci del possibile sento fra queste mura calare uno specchio.

I cenci dorati dell’autunno cantano sotto il passo come vetro.

 

Avviene che ci si sveli a volte con la ferocia che si usa parlando a sé stessi. Ma dico, hai mai detto a qualcuno non di questo o di quello niveau “Le Monde” o l’ultimo Gallimard ma del punto fondamentale, del lavoro di ricerca che è pure la tua stessa sostanza e consuma i fatti della vita al ritmo con cui il corpo consuma ossigeno?

 

Mi resta la cannella di Bisanzio nella maiolica grigia. Incolliamo ritagli di giornali.

Ogni storia d’amore una storia di sopraffazioni reciproche come il Tristano. Quando non si punta sul sacrificio, questa piaga suppurante da sempre dell’istinto di conservazione. D’altra parte se ci si vota al demoniaco si finisce nel più sterile larmoyer di scena.

Saliamo verso un punto impensabile per una scala a chiocciola infinita come verso quel fermarsi del cuore che darà pure nonostante tutto un lampo di rimpianto. Dio si torce su sé stesso con rimpianto in ogni momento del suo inutile tempo.

 

Questa oscena disponibilità all’emozione.

Che cosa mi rende così ricettiva al pensiero degli altri che subito mi ci sperdo, vuota di pensiero e sofferenza miei, adattando all’altra vita il ritmo della mia, pronta a ritenermi in colpa appena mi si urla in faccia che sbaglio? E più sono amici e più urlano, come se l’amicizia fosse diritto di usarti e non volontà di preservarti.

 

Inutile incontro delle parole fra volti ansiosi mentre cade il tempo di ombra in ombra e teneramente si uniscono le cose. La compiacenza d’aver scritto questo e poi la compiacenza di averne fatto denuncia. Come se essere intelligenti, se fosse, rappresentasse un’assoluzione. E gli altri?

 

Non so far altro che farneticare. Il desiderio di assoluto desiderio di morte.

Ma infine tutto è così deliziosamente illogico e così indiscutibilmente meraviglioso, nel senso latino dell’aggettivo, che comprendo come si finisca col chiedersi se non sia possibile anche questa definitiva assurdità che sarebbe Dio.

 

Dovrei non scriverti più, non scrivere. Ma le cose che si ha voglia di dire – e che colpa c’è nell’aver voglia di dire – al principio qualcosa della cui esistenza nemmeno si è certi, alla fine rotolano in un angolo giusto del cervello, si rivestono di corposità come il granello dell’ostrica, e in qualche modo riescono sempre a sgusciar fuori e calare su quel necessario ingrediente che è un lettore. Anche se si ha paura di veder le parole staccate da sé e poterle misurare e sentirle misurate da altri. Si rischia, ci si espone, non si riesce ad evitarlo. E ci si consola pensando che è più onesto parlare che tacere.

L’inverno ci guarda negli occhi. Camminiamo nelle pieghe dei suoi giorni con troppo rumore, cicale sopravvissute, già così niente che forse arriveremo in primavera.

Lastre di pioggia ci dividono.

 

Questo spendere il passato follemente, questo correre e vuotare i forzieri, per poter dire al più presto “ho dimenticato”, ho dimenticato i suoi occhi, il suo sorriso, le parole. Cercar di esser liberi per aiutare gli altri a diventarlo, un alibi che non tiene.

E il passato è questo sangue questa pelle questa paura, il cielo che non ricordo, gli occhi che non so più disegnare, le parole perdute che regolano ancora le mie azioni.

In una rete inestricabile ci si appartiene tutti e si raggiunge così l’inconfessato obiettivo di esser vittima e carnefice al tempo stesso.

Dobbiamo riuscire ad ascoltare il tempo, ascoltarlo mentre s’irradia a carezzare ogni atomo del nostro corpo. Ma abbiamo paura, questo è il segno che ancora, arte o non arte, riempie le chiese e spinge gli eserciti, avvicenda il potere, questo l’amore, ogni genere di amore possibile.

Non sappiamo far silenzio dentro di noi, vogliamo sempre arrivare al domani di ogni evento e prendere le distanze e capire, per affermare condannandolo il nostro esistere.

Così Dio a nostra immagine e somiglianza, il rotolare affannato su sé stesso di un moto di ribellione.

La fine, quella di ognuno, un ingannevole punto intermedio.

 

Ricordi quando ti parlavo di Cerveteri? La pace ha sapore d’aghi di pino fra sepolcri opachi di bambini.

(continua)