Creusa, ancora ignara che Ione, il figlio nato dallo stupro subito da Apollo poco più che bambina, è stato salvato e ora fa da servitore al tempio di Delfi, racconta ad un vecchio ateniese la violenza subita. “Hai preso me, infelice, sopra un letto infelice”: è il rimprovero della fanciulla al dio.
«Creusa: Anima mia, come faccio a tacere? Come farò a svelare quell’amplesso segreto, smarrendo ogni ritegno? E che cosa me lo impedisce più? Con chi ho da gareggiare in virtù, ormai? Lo sposo mi ha ingannato, non ho più famiglia, né figli, e anche la speranza se ne è andata. La mia speranza, cercavo di tenerla chiusa in me, ma non sono riuscita, tacendo le nozze e quel parto disperato. Lo giuro sulla stellata dimora di Zeus, sulla mia dea che abita una collina rocciosa e presso le rive del lago Tritonio gonfio di acque: non tacerò più quell’incontro, voglio sgravarmi il peso dall’anima. I miei occhi grondano pianto, la mia anima patisce, oltraggiata da tutti, dèi e uomini: ora rivelerò come mi hanno ingannata, ingrati e traditori. Dico a te (Apollo, ndr), che canti al suono della cetra d’oro dalle sette corde, costruita con corna di animali uccisi, eppure riecheggia di canti melodiosi, figlio di Latona: ti accuso alla luce del sole! Ti sei presentato con la bionda chioma scintillante come oro. Io avevo in grembo un mazzo di fiori colorati appena colti, e davano barbagli d’oro per le ghirlande; tu mi hai afferrata per le bianche mani e gridavo; “Madre mia!”. Tu, dio, mio sposo, mi hai trascinata nella grotta e senza vergogna hai celebrato le tue nozze. E io, la sventurata, ti genero un figliolo, e per timore di mia madre lo abbandono nello stesso luogo che fu il nostro giaciglio, là dove tu hai preso me, infelice, sopra un letto infelice. Ahi, ora quel figlio mio, che è anche tuo, è morto, divorato dai rapaci. Tu però, sciagurato, suoni e canti alla tua cetra. Sì, parlo a te, figlio di Latona, che indichi i destini sopra un seggio d’oro, posto nell’ombelico del mondo, alle tue orecchie grido: ah, seduttore, infame, che al mio sposo, che per te era nulla, hai donato un figlio per la sua casa, mentre il figlio tuo e mio, sconsiderato!, è morto sbranato da un rapace, strappato alle fasce materne. Ti odia Delo, e l’alloro presso la palma dalle morbide chiome dove, in sacre doglie, Latona ti ha messo al mondo sopra un prato divino.
Coro: Ah, si apre un immenso scrigno di dolori, su cu non c’è nessuno che non piangerebbe.
Vecchio: Figlia, sono pieno di pietà quando ti guardo in volto; mi sento fuori di me. Come se una tempesta di sciagure mi sommergesse la mente, a ogni tua parola riemergo e affondo.»
Euripide, Ione (traduzione di Giulio Guidorizzi).