L’episodio narrato è in “In sogno e in veglia” ed è parte di un racconto, “Bambini della creazione”, che è profondo e allusivo come un saggio. Anna Maria Ortese ci dice di aver inviato ad un giovane scrittore francese un libro che rievoca un trauma infantile: l’episodio del cavallo, appunto. Il segno ineguagliato della violenza del secolo.
«C’erano allora, invece di macchine, carri e carretti, spesso stracolmi di verdure o altri carichi. Un solo cavallo reggeva tutto. Erano bestie che si trascinavano a stento, sempre a testa bassa, sfiancate e il corpo coperto di macchie rosse: le piaghe lasciate dalle incisioni della frusta. Erano tante, queste piaghe – a volte cicatrizzate, a volte no, ora ingrigite, ora ancora di fuoco – che il cavallo, ogni tanto, quasi scosso da un brivido, si voltava a cercarle. Doveva sembrargli impossibile di doverle portare sempre, sempre, senza un aiuto, il minimo sollievo.
Uno di questi cavalli, una mattina intorno agli Anni Trenta, percorreva, chiuso tra due stanghe, un vicolo circondato da giardini di un’aerea bellezza. Ma non andava avanti che a stento; anzi, non andava mai avanti. Il suo carico, alto come una casa, era disumano. La testa del cavallo, abbassata, scarna e sensibile – come pensierosa – si volgeva continuamente a guardare verso i fianchi quelle orride piaghe. Gli occhi sembravano pieni di lacrime, ma forse era solo un colare di umore, perché si dice che i cavalli non piangono. Non avevo ancora visto l’Umanità seduta su un martirio. A un certo punto la vidi, sotto forma di un giovane carrettiere di cui ricordo solo il vigore, l’immobilità, la tracotanza, il berretto e il braccio (con la terribile frusta) alzato. Ne ricordo anche il sorriso, fermo su me, di traverso, in una espressione di incredulità e di beffa. “Così” sembrava pensare “non si va avanti. Ora scendiamo, e diamo a tutti e due” (il Due ero io) “una lezione”. Ed ecco cosa seguì, prima ancora che io mi fossi scostata (ma non mi scostai, o non feci in tempo).
Il carrettiere scese con un balzo a terra, ma non usò la frusta, che aveva sotto il braccio. Prese, sollevò, avvicinò a sé, con due mani, la grande faccia gentile del cavallo, la guardò negli occhi, e in quegli occhi, alla fine, con folle violenza, sputò.
Io ripresi il mio cammino, dopo un momento, mentre anche il carro si muoveva, col suo carico di martirio e d’ingiurie, per il vicolo infinito, e ancora quei vortici della bacchetta di fuoco. Non ricordo altro. Ma pensai a lungo (diciamo mezzo secolo e più) a quel cavallo, e, devo aggiungere, l’inferno di questo secolo non mi fu ignoto né estraneo. Vidi tutti i giornali, dagli Anni Quaranta in poi, e fui testimone di molte sofferenze e disastri. Ma non dimenticai quel cavallo.»
Anna Maria Ortese, Bambini della creazione.