Partendo da un’interrogazione sul significato e l’eredità del ’68, Nancy delinea la propria idea di democrazia. Tra il Maggio francese e la “verità” della democrazia c’è infatti un legame profondo, perché il ’68, che aveva tra i suoi obiettivi polemici non solo il capitalismo, ma anche una certa forma della politica e della democrazia gestionale, ha inventato una nuova idea della democrazia compatibile con il comunismo nella sua forma più alta.
«La democrazia non ha sufficientemente capito che doveva essere anche “comunismo” in qualche modo, perché altrimenti non sarebbe stata che gestione delle necessità e dei compromessi, priva di desiderio, cioè di spirito, di soffio, di senso. Non si tratta quindi solamente di afferrare uno “spirito della democrazia”, ma innanzitutto di pensare che la “democrazia” è spirito prima ancora di essere forma, istituzione, regime politico e sociale. Ciò che in questa affermazione può apparire inconsistente, “spiritualistico” e “idealistico” contiene invece la necessità più reale, più concreta e più pressante. La “democrazia” non è, come nelle teorie politiche del mondo antico, una forma di governo determinata né, come in quelle della modernità, un principio della politica che si esaurisce nella rappresentanza parlamentare. La democrazia è piuttosto una sorta di condizione preliminare che mette in gioco il destino dell’uomo nel suo complesso e apre lo spazio all’invenzione non di fini ultimi, ma di mezzi in grado di elaborare nuove forme non solo della politica, ma anche dell’arte, della letteratura, dell’esistenza umana individuale e collettiva.
(…) Il ’68 ha cominciato a mettere in dubbio, senza che allora ce ne fossimo resi veramente e completamente conto, la certezza democratica che in quel momento sembrava confortata dai progressi della decolonizzazione, dall’autorità crescente delle rappresentazioni dello “Stato di diritto” e dei “diritti umani” e, nello stesso tempo, dall’esigenza sempre più chiara di una giustizia sociale i cui modelli non fossero tributari dei presupposti che il termine “comunismo”, così come avevamo finito per intenderlo, implicava.
(…) Ciò che aveva preceduto il ‘68 determinandone la condizione di possibilità fondamentale – le altre condizioni dipendevano da circostanze più limitate: arcaismi in Francia, pesantezza in Germania, accanimento degli Stati Uniti in Vietnam, eccetera – era stata, per puntare diritto all’essenziale, una delusione poco visibile ma insistente, un sentimento tenace della mancata riconquista di quanto all’indomani della seconda guerra mondiale sembrava aver fatto il suo ritorno trionfale: la democrazia, appunto.
In altri termini il ‘68 è stato non solo possibile ma necessario (nella misura in cui è lecito fare appello a questo concetto nella storia) perché ciò di cui la seconda guerra mondiale era sembrata solo la deplorata interruzione – l’esordio di un relativo concerto o di una concertazione, se non di un consenso, del mondo delle nazioni democratiche e l’inizio di un diritto internazionale – era lungi dall’aver ritrovato il suo corso e dal potere affermare le sue certezze. Al contrario, l’incertezza minava tacitamente ciò che voleva essere una grande “ricostruzione” per utilizzare il termine che servì da motto alla trasformazione della CFDT (Confédération Française Démocratie du Travail, ndr).»
Jean-Luc Nancy, Verità della democrazia.