Una considerazione preliminare, prima di ragionare nel merito dell’analisi del voto di sabato e domenica scorsa. Nella babele dei sistemi elettorali vigenti nel nostro Paese quello per il Parlamento Europeo – proporzionale, con preferenze e con sbarramento al 4% – pareva tra i più condivisibili, sulla carta. E invece c’è un codicillo abnorme. Salvo che per le minoranze tutelate dai trattati internazionali, il quorum al 4% vale su scala nazionale, non di collegio. Talché, se una forza politica regionale o macroregionale prendesse il 20% nel suo collegio, ma nessun voto fuori della sua area territoriale, non avrebbe diritto ad eleggere alcun parlamentare a Strasburgo. Trovo aberrante questa norma. La rappresentanza dei territori è vanificata. Una forza regionale, per avere suoi rappresentanti a Strasburgo è costretta ad elemosinare ospitalità in una lista nazionale, inevitabilmente rinunciando alla sua peculiare identità.
È successo a Stati Uniti d’Europa, che ha superato il quorum nel collegio del Mezzogiorno avendo preso il 5% dei voti, ma non ha raggiunto il 4% nazionale. Ciò è tanto più aberrante nella nostra congiuntura storica, nella quale in tutta Europa i territori regionali e macroregioni stanno vivendo una fase di vivace protagonismo.
Detto ciò passiamo ad analizzare il voto e ad immaginarne le ricadute sul terreno politico e geopolitico. E sì, perché il voto di sabato e domenica scorsi, ancorché in Italia pochi ci abbiano badato, è stato innanzitutto un voto di valenza geopolitica. Mi lego qui agli interventi già pubblicati su queste colonne (Cioffi, Bianchi, Spirito, Pica, Rampazzo) ai quali rinvio.
Sabato e domenica scorsi era in gioco la posizione dell’UE rispetto alla guerra russo-ucraina. Sotto questo profilo, dal punto di vista mio – cioè di un filo-ucraino – i risultati più preoccupanti sono stati quelli della Francia e della Germania, finora le vere forze trainanti della solidarietà europea a Kyiv. Il Rassemblement della Le Pen in Francia e l’AFD in Germania, entrambi filorussi ed euroscettici, hanno avuto un exploit formidabile, indebolendo così pesantemente i rispettivi governi di Macron e di Scholz. Tanto che Macron si è affrettato all’azzardo di sciogliere il Parlamento e di indire le elezioni per il suo rinnovo già per il 30 giugno. Un colpo a segno per Putin, non c’è dubbio. Quello stesso Putin che da anni finanzia e supporta a man bassa le formazioni d’Europa neonaziste, neofasciste ed anti-Ue.
Tuttavia, nonostante la Francia e la Germania, la composizione generale del Parlamento di Strasburgo vede ancora in maggioranza l’alleanza filo-ucraina PPE-PSE-Renew Europe. Anche l’eventuale allargamento della maggioranza ai Grunen, che in Germania sono filo-ucraini, non pregiudicherebbe la continuità d’azione della Ue riguardo al conflitto in corso.
L’Italia è un caso a parte. Da noi ci sono stati quattro vincitori e cinque sconfitti.
Cominciamo dagli sconfitti, Lega, M5S, Pace-Terra-Dignità, Stati Uniti d’Europa e Azione. Tutti al di sotto delle loro aspettative. Le prime tre hanno martellato in campagna elettorale sull’abbandono dell’Ucraina al suo destino di schiava di Putin e nel loro insieme sono state votate dal 21% degli elettori. Responso chiaro: in Italia gli ultras euroscettici e cripto-putiniani sono stati bocciati nelle urne.
Invece le due liste di centro, SUE ed Azione, europeiste e filo ucraine, hanno pagato il costo della loro divisione, entrambe non raggiungendo il quorum. Ma insieme hanno avuto un milione e settecentomila voti, circa il 7%. Un vero patrimonio politico buttato a mare con irresponsabile leggerezza.
Forse i loro due leader hanno considerato che, trattandosi di un voto proporzionale, dove di solito la somma di due differenze è a saldo negativo, se avessero rimarcato le loro rispettive identità peculiari avrebbero avuto più voti che se fossero stati insieme. Errore madornale. La regola sulla somma dei voti a saldo negativo nel proporzionale vale tra forze con identità ben distinte. Ma nel caso di Azione e di SUE le rispettive identità erano sovrapponibili in toto. Per evidenziarne le distinzioni i due leader hanno finito col beccarsi tra di loro, inevitabilmente sconcertando il proprio elettorato.
I vincitori sono stati quattro, FdI della premier Giorgia, FI, Pd e Alleanza Verdi e Sinistra. Le prime tre forze, nel loro insieme il 63% dei voti validi, erano tutte collocate a fianco di Kyiv. Forse solo qualche candidatura ‘indipendente’ nel Pd era più prudente, ma a questo riguardo la stessa Schlein aveva chiarito che la linea del partito non la fanno i candidati indipendenti. Dunque il 63% degli Italiani che si è recato alle urne ha appoggiato la posizione filo-ucraina. Gli stessi AVS, pur se critici sulle armi all’Ucraina, non si sono spesi più di tanto su questo terreno, puntando piuttosto sull’antifascismo (candidatura Salis), sui migranti (candidatura Mimmo Lucano) e sull’ambiente (candidatura Borrelli).
Insomma, se in Europa si registra una crescita di formazioni di estrema destra filoputiniane, in Italia questo fenomeno non si è verificato.
Qualche parola sull’astensione, da tempo un dato strutturale delle tornate elettorali, salvo quelle locali. Per la prima volta in Italia ha votato meno della metà degli aventi diritto. Sotto questo riguardo però il nostro Paese è stato in linea col resto d’Europa, salvo piccole eccezioni verso l’alto, come a Malta.
Una riflessione attenta piuttosto andrà fatta sull’affluenza irrisoria nei Paesi ex oltrecortina (baltici, Est-Europa e Balcani), nei quali in media ha votato il 25% dell’elettorato. Segno di una fatica della democrazia a mettervi radici.
Last but not least: se si sommano i voti dei partiti in maggioranza nel Parlamento italiano si arriva al 48%; se si sommano quelli dei partiti all’opposizione, compreso il centro, si arriva al 50%. Fossi nella Meloni una riflessione ce la farei!