C’è un rapporto profondo e segreto tra la luce e i minareti. José Saramago lo racconta magnificamente nelle prime pagine della sua “Storia dell’assedio di Lisbona”, introducendo l’immagine di un muezzin cieco che si accinge alla chiamata per la preghiera dell’alba: l’idea all’origine infatti è quella di una luce di segnalazione.
«Quando soltanto una vista mille volte più acuta di quella che può dare la natura sarebbe capace di scorgere nell’oriente del cielo la differenza iniziale che separa la notte dall’aurora, il muezzin si svegliò. (…) Il muezzin si alzò a tentoni nel buio, trovò gli indumenti con cui finì di coprirsi e uscì dalla camera. La moschea era silenziosa, solo i passi incerti risuonavano sotto gli archi, piedi che si trascinavano prudenti, come se temessero di essere ingoiati dal suolo. A qualunque altra ora del giorno o della notte non provava mai questa angoscia dell’invisibile, soltanto in questo momento mattutino, quando saliva le scale del minareto per chiamare i fedeli alla prima preghiera. Per uno scrupolo superstizioso, gli si raffigurava nella fantasia la propria grave colpa per il fatto che gli abitanti stessero ancora dormendo quando il sole era già alto sul fiume e, svegliandosi di colpo, abbagliati dalla luce chiara, chiedessero gridando dov’era il muezzin che non li aveva chiamati all’ora giusta, qualcuno più caritatevole avrebbe detto, Sarà malato, ma non era vero, lui era sparito, sì, portato all’interno della terra da un genio delle tenebre più grandi. La scala, a chiocciola, era faticosa da salire, tanto più per la vecchiaia del muezzin, per fortuna non c’era bisogno che gli bendassero gli occhi come si fa alle mule dei mulini per non fargli venire le vertigini. Quando arrivò in cima, sentì sulla faccia il fresco del mattino e la vibrazione della luce all’albeggiare, ancora nessun colore, ché non può averlo quel puro chiarore che precede il giorno e sfiora la pelle con un brivido sottile, come un tocco di invisibili dita, un’impressione unica che ti fa dubitare se la screditata creazione divina in fondo non sia un ironico fatto della storia per umiliare scettici e atei. Il muezzin percorse con la mano, lentamente, il parapetto circolare fino a trovare, scolpito sulla pietra, il segno che indicava la direzione della Mecca, la città santa. Era pronto. Alcuni istanti ancora per dare tempo al sole di affacciarsi ai balconi della terra con la sua aura, e anche per schiarirsi la voce, perché la scienza declamatoria di un muezzin deve apparire evidente fin dal primo grido, è lì che si deve dimostrare, non quando la gola si è già addolcita per l’opera della parola e il conforto del cibo. Ai piedi del muezzin c’è una città, laggiù un fiume, tutto dorme ancora, ma inquieto. Il mattino comincia a muoversi sopra le case, la superficie dell’acqua si trasforma in uno specchio del cielo, e allora il muezzin inspira profondamente e grida, acutissimo, Allāhu akbar, predicando ai quattro venti la superba grandezza di Dio. E ripete, come griderà e ripeterà le formule seguenti, in estatico canto, prendendo il mondo a testimone che non c’è altro Dio all’infuori di Allāh, e che Maometto è il messaggero di Allāh, e dopo aver detto queste verità essenziali chiama alla preghiera, Venite all’azalà, ma essendo un uomo per natura pigro, anche se credente nel potere di Colui che non dorme mai, il muezzin rimprovera affettuosamente gli altri, a cui le palpebre pesano ancora, La preghiera è meglio del sonno, As-salatu jay-run min an-nawn, per coloro che in questa lingua lo capiscono, e infine ha concluso affermando che Allāh è l’unico Dio, La ilaha illa llah, ma adesso solo una volta, che è già abbastanza quando si tratta di verità definitive. La città mormora le preghiere, il sole è spuntato e illumina le terrazze, fra poco nei cortili spunteranno gli abitanti. La torre della moschea è piena di luce. Il muezzin è cieco.»
José Saramago, Storia dell’assedio di Lisbona.