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E arrivò “Parthenope” ad incantare la Croisette: al Festival di Cannes il nuovo film di Paolo Sorrentino, unico regista italiano in lizza per la Palma d’oro, è stato accolto da 10 minuti di applausi, a riprova che Sorrentino dalle parti di Cannes è molto apprezzato. Accompagnato da un cast di prestigio, tra cui Gary Oldman, Stefania Sandrelli e Luisa Ranieri, il regista napoletano sceglie di rispecchiarsi in un personaggio femminile: “Questo film è per me una celebrazione del viaggio della mia vita”, ha detto alla folla dopo l’anteprima finita a notte fonda.
Del resto, il regista è un habitué di Cannes, anche se erano nove anni che non portava un suo lungometraggio. Nel 2015 fu “Youth”, ma in precedenza il regista partenopeo era già stato in concorso altre cinque volte, da “Le conseguenze dell’amore” (2004) a “La grande bellezza” (2013), e la vittoria del Premio della Giuria nel 2008 con “Il divo”.
Il film racconta di Parthenope che è una donna ed è anche Napoli, la città di Sorrentino. “Non è una lettera di amore, non le ho mai sapute scrivere, ma un viaggio nel mistero di questa città indefinibile, teatralizzata, in cui tutto è recita”, dice il regista che documenta la storia di questa giovane che nasce nell’acqua del Golfo. C’è la sua nascita, le sue estati giovanili e gli anni trascorsi alla deriva da giovane e da adulta, ci sono le sue esperienze anche estreme, profonde, vive, momenti storici come la contestazione, il colera, san Gennaro, la cultura immensa e la volgarità, il terremoto persino, e ovviamente la città in festa per lo scudetto, non manca nulla di Napoli.
Dal disincanto della Grande Bellezza al “grande incanto” di Parthenope, il film è una riflessione inebriante sul modo in cui le persone e i luoghi vengono visti. E sul modo in cui vedono sé stessi. È un film sul ritorno, una ricerca artistica commovente, quella di un regista che esplora, attraverso il racconto di una donna che trova la sua vita interiore, al di là della sua bellezza, e attraverso di essa.
Ma l’Italia a Cannes è anche “Marcello Mio”, il film en travesti di Christophe Honoré. Un omaggio al grande Marcello Mastroianni di cui quest’anno ricorrono i cento anni dalla nascita, un film indagine nell’identità di una figlia d’arte – Chiara nata dalla relazione di Mastroianni con Catherine Deneuve. Chiara entra letteralmente nei panni del padre e in nome di lui cerca di fare pace con la propria identità e dare una risposta alla domanda tipica: “Ti senti più Mastroianni o Deneuve?”.
E a Cannes quest’anno torna anche Valeria Golino per presentare la miniserie “L’arte della gioia”, tratta dal romanzo omonimo di Goliarda Sapienza. Valeria Golino è perfettamente consapevole della modernità del libro di Goliarda Sapienza, che ha qualcosa di rivoluzionario perfino se letto nel nostro presente. “Tutti i personaggi femminili di questo libro sono molto interessanti e complicati” – dice la regista. “E sono molto fuori dagli archetipi, perché ‘L’arte della gioia’ pullula di archetipi che però Goliarda rompe in continuazione, a cominciare da Modesta. Lei è oltre la modernità, lei è un po’ più avanti di noi adesso, e mi piaceva l’idea di raccontare una donna in maniera poco edificante, con tutti i grandi difetti che di solito si attribuiscono agli uomini, che nella letteratura sono spesso antieroi, gli antieroi nei libri sono sempre di sesso maschile e hanno dei difetti che rimangono tali: Modesta li ha tutti, solo che è donna. Il peggiore è forse l’assenza di senso di colpa”.