“A mia madre” è la prima poesia, poi raccolta in “Ancestrale”, scritta da Goliarda Sapienza: una donna straordinaria che il nostro Novecento non ha meritato.
Quando tornerò
sarà notte fonda
Quando tornerò
saranno mute le cose
Nessuno m’aspetterà
in quel letto di terra
Nessuno m’accoglierà
in quel silenzio di terra
Nessuno mi consolerà
per tutte le parti già morte
che porto in me
con rassegnata impotenza
Nessuno mi consolerà
per quegli attimi perduti
per quei suoni scordati
che da tempo
viaggiano al mio fianco e fanno denso
il respiro, melmosa la lingua
Quando verrò
solo una fessura
basterà a contenermi e nessuna mano
spianerà la terra
sotto le guance gelide e nessuna
mano si opporrà alla fretta
della vanga al suo ritmo indifferente
per quella fine estranea, ripugnante
Potessi in quella notte
vuota posare la mia fronte
sul tuo seno grande di sempre
Potessi rivestirmi
del tuo braccio e tenendo
nelle mani il tuo polso affilato
da pensieri acuminati
da terrori taglienti
potessi in quella notte
risentire
il mio corpo lungo il tuo possente
materno
spossato da parti tremendi
schiantato da lunghi congiungimenti
Ma troppo tarda
la mia notte e tu
non puoi aspettare oltre
E nessuno spianerà la terra
sotto il mio fianco
nessuno si opporrà alla fretta
che prende gli uomini
davanti a una bara
È compiuto. È concluso. È terminato.
È consumato l’incendio. S’è fermato.
S’è chiuso il cerchio pietrificato.
Il tempo s’è fermato. È consumato
il delitto. S’è bruciato
il ricordo. L’ansia è cessata.
Una coltre di lava ha mormorato
ogni cranio ogni orbita svuotata.
Ogni bocca nel grido ha sigillato.
S’è chiuso il cerchio. Niente osa varcare
il silenzio di lava. Le formiche
girano intorno al rogo spento impazzite.
Un volo e in un attimo la stanza
fu colma d’un sentore acre d’estate.
La tua voce si spense con la luce
che moriva nel nero del fogliame.
Un fiato caldo alitava ci cingeva
e restammo supine ad aspettare.
Tu mi volgi le spalle
io non ti chiamo
raccolgo
le tue impronte sul lenzuolo.
A mia madre.