Borges, in questo breve racconto tratto da “L’Aleph” narra che Averroè, commentando Aristotele, si imbatte in “tragedia” e “commedia”: ” Qualcosa gli aveva rivelato il significato delle due parole oscure… Aristù (Aristotele) chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del santuario.”
«… due parole dubbie avevano arrestato (Averroè) al principio della Poetica di Aristotele. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate, anni prima, nel terzo libro della Rettorica; nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire. (…) Qualcosa gli aveva rivelato il significato delle due parole oscure. Con ferma e curata calligrafia aggiunse al manoscritto queste righe: “Aristù (Aristotele) chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del santuario.”
(…) Nella storia che precede ho voluto narrare il processo di una sconfitta. Pensai, al principio, a quell’arcivescovo di Canterbury che si propose di dimostrare che c’è un Dio; poi, agli alchimisti che cercarono la pietra filosofale; in seguito, alle vane trisezioni dell’angolo e quadrature del cerchio. Poi riflettei che è più poetico il caso di un uomo il quale si propone un fine che non è vietato agli altri, ma a lui soltanto. Ricordai Averroè, che chiuso nell’ambito dell’Islam non poté mai sapere il significato delle voci tragedia e commedia. Presi a narrare il caso; a misura che procedevo, sentivo quel che dovette sentire quel dio di cui parla Burton, il quale s’era proposto di creare un toro e creò un bufalo. Sentii che l’opera si burlava di me. Sentii che Averroè, che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos’è un teatro, non era più assurdo di me, che volevo immaginare Averroè senz’altro materiale che qualche notizia tratta da Renan, Lane e Asin Palacios. Sentii, giunto all’ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell’uomo che io ero mentre la scrivevo, e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell’uomo, e che, per essere quell’uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e cosi all’infinito. (Nell’istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce).»
Jorge Luis Borges, La ricerca di Averroè.