Più di 70 anni fa, per la precisione 75 anni, fa Hannah Arendt ultimava il suo celebre “Le Origini del Totalitarismo”. Un classico ormai del pensiero politico. Al centro del libro, un concetto divenuto cruciale e a lungo dibattuto come ideal tipo di governo: il totalitarismo appunto. Inteso come mobilitazione delle masse, industriale e politica. Nel quadro di tecnica e comunicazione di massa nel declino dello Stato liberale.
Fu Giovanni Amendola a parlarne per primo in Italia nel 1924, e in seguito l’ultimo Trotzky leninista totalitario ma via via consapevole di una dinamica inedita che univa fascismi e stalinismo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Dunque la Arendt metteva a fuoco una forma molto attuale con la quale facciamo ancora i conti in varie guise, proprio ieri come oggi, nel quadro di una dinamica geo politica mondiale. Ecco, occorre partire proprio di qui – oggi come ieri – per entrare nel tema. Poiché ciò che a riguardo è stato trascurato è stato proprio il “sistema mondo”, nella genealogia arendtiana del concetto. Fin qui sempre avulso da certe coordinate mondiali e cristallizzato invece in chiave sociologica e descrittiva. Ovvero: in forma politica specifica passe par tout più o meno applicabile a questo o quel caso.
E invece sempre andò smarrito un punto chiave, che nella Arendt era molto chiaro. Cioè la genesi dei totalitarismi proprio dall’interno della dinamica mondiale degli imperialismi, corrispondenti alla globalizzazione del primo novecento e che innescarono il mercato mondiale, i nazionalismi e i populismi.
E difatti “Le Origini del Totalitarismo” prende le mosse in Arendt proprio di qui. Dal corto circuito tra globalità cosmopolita e risveglio delle nazionalità. Tutta la prima parte del celebre libro è infatti dedicata a questo innesco. Ed è esattamente su questa base che la Arendt spiega la nascita del totalitarismo come guerra di civiltà espansiva della Kultur austro tedesca “superiore” in Europa, contro le insorgenze nazionali e la Zivilisation democratica a sua volta espansiva sul terreno coloniale ed europeo per la conquista dei mercati continentali e trans marini.
Qui l’analisi di Arendt si incontra con quella di Hobson, Lenin e Rosa Luxembourg. Contro l’idea lineare e ottimistica dei teorici della social democrazia classica, da Bernstein a Hilferding. Inclusi lo stesso Marx e lo stesso Engels! I quali tutti ipotizzavano uno sviluppo “ultra imperialista” ma uniforme che avrebbe generato rivoluzione ed evoluzione all’unisono e con saldatura economica tra centro e periferia. E in ogni caso con leadership e sicura alleanza tra socialismi europei nel guidare il processo mondiale, senza guerra mondiale.
Accadde l’esatto contrario e i socialismi si divisero. Non vi fu nessuna avanzata democratica di civiltà destinata ad estendersi nel mondo via via dai punti alti a quelli arretrati! Bensì scoppiò guerra civile mondiale con i socialdemocratici divisi sulle linee nazionali imperiali e nazionali (salvo in Italia). Poiché ciò che assicurava lo sviluppo e anche un certo benessere operaio, era proprio lo spostamento dei costi di produzione e dei capitali fuori dai confini. E con drenaggio di materie prime e forza lavoro importata o delocalizzata, per abbassare prezzi dei beni e della forza lavoro. Oltre le barriere nazionali. Sotto l’impulso inevitabile della tecnologia labour saving e con meno salari necessari al suo funzionamento.
Era iniziata dunque l’età degli imperialismi maturi, fase suprema degli imperialismi, con sviluppo ineguale delle aree del mondo e conflitto tra Leviatani globali, e piccole patrie incluse. Di qui proprio nasceva per la Arendt una forma storica necessaria e moderna, inedita: il totalitarismo politico e delle forze produttive post liberale. E con economia di guerra. E sia in forme democratiche di Welfare e di new deal, sia in forme tribali reazionarie o egualitarie burocratiche come in URSS, erede dell’Impero zarista in sfacelo.
Una riflessione acutissima questa, che senza saperlo si incontrava a meraviglia con quella del Gramsci incarcerato. Il quale negli anni 30 teorizzava nei Quaderni le grandi modernizzazioni del 900: New Deal, americanismo fordista totale – a plasmare anche i corpi! – fascismi, bonapartismo orientale.
Scrisse Gramsci proprio così: bonapartismo d’oriente, con società civile assente o “gelatinosa”! In sintesi e seguendo la Arendt, la radice del totalitarismo era ed è nella contesa tra Cosmopolitismo e Stati nazione (lo scrive anche Gramsci). E nella anarchia espansiva del mercato globale dentro il quale gli Imperi e le nazioni collidono. Generando contraccolpi di guerra di civiltà culturale, e dunque di regressione populista, anche per via di smottamento di ceti e classi organizzate in moltitudini nomadi e flessibili. Nel segno di automazione e de localizzazione del processo produttivo. Dentro e fuori i confini nazionali.
Al che va aggiunto ovviamente il debito sovrano, acuito da un welfare inconciliabile con la mobilitazione produttiva a basso costo e relativi costi di rilancio produttivo, assistenza e formazione. Per non dire del nomadismo finanziario ingovernabile, se non dai grandi Imperi forti e indebitati (30mila miliardi di dollari in USA garantiti dal dollaro e da egemonia tecno planetaria prevalente).
E siamo dunque all’oggi. Quali conclusioni trarre da questo excursus storico che ci parla così da vicino? Due conclusioni. Ecco la prima. Questa: siamo del tutto immersi e alla ennesima potenza, nel secolo passato niente affatto “breve”, come scrisse Eric Hobsbawm bensì lunghissimo! E fu la scelta della pax americana e della cosiddetta fine della storia dopo il 1989, a prolungare questa storia senza fine, che ci ha sospinti ancora sul baratro di guerra civile mondiale. Ma in era atomica. E poi disordine mondiale. Nel segno di conquista planetaria di mercati e democrazia, da esportare come forma suprematista e antropologica esemplare. Proprio come denunciò il conservatore Samuel Hungtinton nel 1993 nel suo The Lonely super power. E poi in Clash of Civilisation nel 1997. Oggi, dopo le distruzioni in Medioriente e lo scacco Euro NATO innegabile in Ucraina, converrà quindi all’Occidente e alla Ue ripensare se stessi per intero. E qui veniamo alla seconda conclusione. Eccola. Nella geopolitica di imperi capitalisti in varia forma, urge un nuovo multilateralismo. Un nuovo wilsonismo come quello che fu alla base della società delle nazioni e dell’Onu. Un sistema di coesistenza pacifica tra sistemi differenti del tipo nuova Yalta con regolazione monetaria alternativa al dollaro. Oppure differente ma compatibile. E con inevitabili aree geopolitiche di influenza, laddove sul piano del diritto cosmopolitico venga prima la pace nell’era nucleare, e poi i sacrosanti diritti nazionali. La tragica vicenda ucraina e quella palestinese lo dimostrano ormai: senza coesistenza pacifica, come Norma fondativa “kelseniana” dell’ordine mondale, la globalizzazione sarà sempre e comunque il trionfo degli spiriti animali nell’ Oceano planetario e tempestoso del mercato e degli Imperi in lotta senza fine. Sul crinale nucleare.