“Ovvero della violenza sull’inerme” è il sottotitolo che Adriana Cavarero ha apposto a queste riflessioni sulle violenze – “gli attentati, le stragi di civili, i massacri delle guerre contemporanee” – che stanno segnando questo secolo e impongono che una nuova nomenclatura ne definisca l’orrore.
«Mentre la violenza dilaga e assume forme inaudite, c’è nella lingua contemporanea una difficoltà a darle nomi plausibili. Soprattutto dopo l’11 settembre 2001, le procedure di nominazione, che forniscono cornici interpretative agli eventi e orientano l’opinione pubblica, sono parte integrante del conflitto. Certo è che terrorismo e guerra evocano vecchi concetti e, più che aggiornarli, li confondono.
Nel discorso politico e in quello dei media, terrorismo è oggi un vocabolo tanto onnipresente quanto vago e ambiguo, il cui significato si dà per scontato al fine di evitarne una definizione. Da parte loro, pur impegnandosi in ampie classificazioni, gli studi specialistici, benché talvolta disposti ad aggiornarlo col termine “iperterrorismo”, ammettono che è ormai impossibile definirlo. Un problema non dissimile riguarda il sostantivo guerra e la costellazione lessicale di cui è il centro. Fatta salva la bizzarria terminologica di un ossimoro come quello di “guerra umanitaria”, la nozione di “guerra preventiva” desta giuste obiezioni, e l’espressione war on terror va addirittura a smentire un lessico politico della modernità che riserva notoriamente ai soli Stati la categoria di nemico. Equivoca e incerta, la situazione è linguisticamente caotica. Nomi e concetti, e la realtà materiale che vorrebbero designare, mancano di coerenza. Mentre in forme sempre più efferate la violenza sull’inerme si fa globale, la lingua si mostra incapace a rinnovarsi per nominarla e tende, anzi, a mascherarla.
I nomi non cambiano, ovviamente, la sostanza di un’epoca che è giunta a scrivere il capitolo più ampio e anomalo, se non più ripugnante, nell’umana storia della distruzione. Né la cruda realtà di corpi dilaniati, smembrati e bruciati, può affidare il suo senso alla lingua in generale o a un sostantivo particolare. A ben vedere, un suo vocabolario specifico la violenza sugli inermi tuttavia ce l’ha ed è, non solo alla tradizione occidentale, noto da millenni. Inaugurato dalla biblica strage degli innocenti e passato per varie vicende che includono l’aberrazione di Auschwitz, esso nomina l’orrore piuttosto che la guerra o il terrore, e parla di crimine prima ancora che di strategia o di politica. Non che, per la guerra o il terrore, l’orrore sia una scena del tutto sconosciuta. Anzi. Tale scena ha però un suo senso specifico del quale le procedure di nominazione, affrancandosi dal loro assoggettamento al potere, dovrebbero finalmente rendere conto. Spingendosi a coniare un nuovo vocabolo, questa scena la si potrebbe così chiamare orrorista o, forse, per economia o omaggio alle assonanze, si potrebbe parlare di orrorismo. Quasi che fossero tutte le vittime inermi, invece che i loro massacratori, a deciderne idealmente il nome.»
Adriana Cavarero, Orrorismo.