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LE CITAZIONI: Schneider, l’albero di Goethe

by Ernesto Scelza
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Goethe amava passeggiare nei dintorni di Weimar, e si sedeva spesso all’ombra di un faggio. Fu nei pressi di quel luogo che nel 1937 i nazisti costruirono il campo di concentramento di Buchenwald; quell’albero divenne testimone di atrocità e orrori che ben presto cancellarono ogni ricordo di poesia. Il quattordicenne Willi vi viene internato per aver distribuito volantini e assiste alla degradazione di tutto ciò che è umano. Helga Schneider racconta un momento della nostra Storia recente in cui tutto ciò che ci rende umani ha rischiato di essere annientato per sempre.

«Il bosco era lì, colorato e allegro nella sua veste autunnale. Willi rallentò per contemplare le foglie infiammate e ingiallite, lasciando che lo sguardo si perdesse in quei colori. Conosceva la storia di quel bosco, o meglio, di quello che era stato un tempo. Un veterano, un testimone di Geova, una sera aveva raccontato a tutto il dormitorio come era nato Buchenwald. Lui parlava per esperienza diretta, perché all’epoca aveva dovuto lavorare per costruirlo.

Era il 1937. L’uomo si trovava nel Konzentrationslager (campo di concentramento, ndr) di Sachsenburg quando lui e altri prigionieri furono condotti, sotto la rigida sorveglianza delle SS, in un luogo a otto chilometri da Weimar, nel cuore di un bosco di faggi, querce e abeti rossi. Lì doveva sorgere il campo di concentramento di Buchenwald. Arrivarono altri prigionieri politici, tra cui molti comunisti, e anche religiosi, delinquenti comuni e prigionieri in custodia cautelare. Insieme dovettero abbattere qualcosa come centocinquanta ettari di bosco. Un lavoro mostruoso, compiuto in condizioni disumane, a un ritmo impossibile, con mezzi scarsi e inadeguati.

Le SS decisero di salvare una quercia. Era un albero speciale, la vecchia quercia che la città di Weimar aveva dedicato al grande poeta e scrittore Johann Wolfgang Goethe, che proprio a Weimar era morto nel 1832. Stabilirono che la quercia sarebbe stata il centro del campo di concentramento di Buchenwald, e così fu.

La sera, l’albero di Goethe veniva illuminato da un alto lampione che insinuava la sua luce tra i rami e le foglie. In primavera veniva potato, e ai suoi piedi c’era un’aiuola traboccante di fiori.

Un giorno il capocommando Mucke dovette essere preso da un attacco di follia, perché prima di condurre come sempre l’M-III al lavoro fece una deviazione e guidò il gruppo verso l’albero che si ergeva, solo ed eroico, in quello che veniva chiamato il campo grande, davanti a un blocco basso e scuro dall’aspetto deprimente come tutti gli altri. L’albero era poderoso, bellissimo e profondamente malinconico nella sua magnificenza, lui che celebrava la vita tra i segni della prigionia, della tristezza, della sopraffazione, della ferocia.

Mucke fece disporre i ragazzi in cerchio attorno all’albero e prese a raccontare di Goethe, il maestro, il genio. Sembrava che conoscesse tutto di lui: l’infanzia, la vita, le opere, gli ideali. I ragazzi erano attoniti: quello che avevano davanti, e che parlava con tono ispirato di un grande poeta del passato, sembrava un altro Mucke.

Era una giornata bellissima, all’inizio di ottobre. Il cielo era ancora velato di una patina rosa che presto si sarebbe lacerata come un tessuto troppo leggero.

E Mucke, trasformato, parlava e parlava, rapito, lo sguardo perso tra le fronde dell’albero, mentre i ragazzi e Hirse lo guardavano sbigottiti. Era davvero un altro: sembrava un insegnante appassionato che avesse portato la sua classe in gita d’istruzione per mostrarle un luogo a cui era particolarmente legato. L’improbabile lezione di letteratura che l’altro Mucke stava recitando affascinava tutti. Solo uno dei ragazzi non si lasciò sedurre dalla metamorfosi. Era Bubi. Forse perché lo conosceva meglio di tutti. Mucke il servo del regime, Mucke che faceva il duro con i deboli ma con Bubi era fin troppo arrendevole, pronto a dargli qualunque cosa in cambio di quello che succedeva tra loro la sera, di nascosto, ai margini del bosco. Bubi no, non credeva alla trasformazione del suo aguzzino.»

Helga Schneider, L’albero di Goethe.