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Un ricordo personale di Adriano Aprà

by Bruno Gravagnuolo
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Ho appreso ieri l’altro della morte di Adriano Aprà (Roma 1940) con sgomento e tristezza. È’ stato un grande critico cinematografico e un grande studioso. Alieno dal potere, creativo, immaginifico. Libero. Coraggioso. Grande energia organizzativa e fantasia al futuro anteriore. Un riferimento per tutta la critica italiana negli ultimi 50 anni. Mi ha insegnato a guardare in modo nuovo i film. Negli anni ‘70/’80, da amico disinteressato e quasi fanciullo sempre stupito davanti al mondo dell’immagine movimento.

Una rivoluzione dello sguardo per me. Che mi strappò dall’estetica dei contenuti fino a spostare la mia attenzione alla forma. All’azione scenica che grazie a lui scoprivo condensare immaginario, inconscio, generi ed emozioni collettive. Mi ha insegnato il cinema come costruzione tecnica, che veicola il vissuto e lo rende tempo condiviso dallo spettatore e dalle masse, nella società di massa. Il più acuto e penetrante mezzo di coinvolgimento della mente visiva. Magico e antico. Iper moderno e rituale. Contava la messa in scena dinamica per lui, per muovere il transfert dello spettatore e risucchiarlo nel vortice filmico. Non la storia in sé.

Certo lo spunto e la storia, ma come specchio collettivo e imprevedibile di eventi inattesi, come nella vita. Dunque tempo, azione, tipizzazione di personaggi in gioco, nonché l’implicito. Il non visibile e possibile latente. L’inconscio filmico e la sceneggiatura in sottotesto. Cinema come sogno infinito e opera aperta quanto la vita. Incantesimo tecnico per esplorare il mondo e penetrarlo, abbandonandosi alla finzione che risveglia vite e sogni già sognati. o sognabili. Di qui la riscoperta in Adriano Aprà di Matarazzo, Bava, Blasetti, Alessandrini, e soprattutto Rossellini, e quindi tutto cinema verità fatto di onirismo iper-reale concreto, anche se basato su mitologemi o tradizioni.

Il punto vero per Adriano era il come l’accadere veniva imbastito, non il che cosa accadeva. Perché nel come dell’azione filmica c’era la risposta al perché del che cosa. Del contenuto. Solo la tecnica e l’assemblaggio “montavano” il senso e il perché del film. E quindi spiegavano l’accadere di una storia quotidiana o collettiva, anche tramandata. Ad esempio Sole di Blasettl del 1929 sulla bonifica della pianura pontina: conflitto di generazioni tra campagna e città. Dove i giovani scelgono la campagna.

Ricordo pomeriggi interi in sale di periferia a vedere di tutto. Dal cinema d’appendice a quello di fantascienza. Non senza passaggi a Cinecittà, con le pizze di pellicole e la moviola. Interi capolavori sul piccolo schermo. in sala montaggio o al cinema in poltrona. Con lui mentore un po’ freak, che mi spiegava i sortilegi di Lenì Von Riefensthal, Blasetti, Altmann, Rossellini, John Landis. Storia in film e fantascienza cinema che genera film dal suo interno. Stessa passione. Che fosse Odissea 2000 oppure Andrej Rubliov, Kubrik o Tarkovskj. E poi il cinema fascista nazional popolare antenato del neorealismo da Camicia nera a Paisà! Nessun tabù, si trattava di capire comunque la scena delle emozioni e del transfert collettivo storicamente determinato, alienato che fosse o mitizzato per le masse del pubblico moderno.

Mi diceva che a suo avviso André Bazin maestro della Nouvelle Vague francese aveva davvero penetrato il mistero del Cinema. Attraverso la comprensione dei filmati di guerra: le riprese dal vivo delle battaglie aeree. Giocate sul bilico istantaneo della vita e della morte. Ma senza retorica eroica, bensì sulla successione tragica delle sequenze sbilenche e sincopate. La matrice di Hitchcock! Duelli aerei e scale a chiocciola, suspence e ordinaria tragedia del divenire quotidiano, intessuto di istanti indecisi. Ecco il senso del cinema per Aprà: filosofia dell’accadere in presa diretta. Dare forma con lo sguardo alla vita reale, rimetterla in forma così come essa si dà forma. E perciò nessun formalismo. Piuttosto creazione ex novo di quel che sempre avviene. Mimesi dinamica e immaginale del già accaduto e del possibile, come innocenza del divenire che non può che farsi immagine e icona. Di qui poi le infinite discussioni su MacLuhan, Della Volpe, Metz, Deleuze, Wahrol. Giambattista Vico che lo attraeva per il tema dei “ricorsi”, nel senso del divenire che ritorna e però senza finalismo come in Nietzsche. Uno spunto questo che mi diceva aver preso da MacLuhan, con mio stupore allora!

Adriano era così: solido teoricamente, ma sbrigliato e “a braccio”, sciolto e fluido. Le migliori conferenze mi diceva mi sono “venute” quando “ho buttato scalette, appunti e fogli scritti”. E confesso di aver cercato un po’ di fare spesso come lui, e grazie proprio a lui. Eppure aveva diretto cose importanti come Salsomaggiore, i corti, rassegne internazionali, insegnato, diretto Cinema&film, scritto infiniti saggi per FilmCritica, e poi diretto il festival di Pesaro. Curato gli scritti di Bazin, girato persino due film, promosso “Fuorinorma festival espanso” del cinema neo-sperimentale per i giovani film maker. L’anno scorso venne da me. Voleva parlare di Cartesio. E rimuginava sullo sceneggiato Tv di Rossellini. Su cui intendeva ritornare. Pensava al Cogito! Alle “idee” che vengono da “id”, suffisso greco di “orao” e cioè vedere. Guardare.

Dunque per Adriano quello di Cartesio era un Cogito filmico. Esperienza interna mossa da esperienza esterna e veicolata dalle leggi della rifrazione ottica, attraverso immagini che arrivavano alla mente come impulsi iconici, a loro volta ritradotti in “auto coscienza visione”.

Adriano voleva farne un saggio o una rivisitazione scenica della famosa opera di Rossellini. Era eccitato da quella cosa. Entusiasta come un ragazzo a caccia di spunti e bibliografia. Lo aiutai e ne parlammo a lungo quel pomeriggio da me.

Poi qualche telefonata ancora, e infine dissolvenza. Fu il nostro ultimo saluto. (I funerali si terranno a Roma mercoledì alle 11 alla Chiesa degli Artisti).