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L’inciampo morale del Pd

by Luigi Gravagnuolo
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Gli elettori hanno sempre ragione’.  Così si dice e non è vero. Se gli elettori di Casal di Principe sono controllati da Sandokan, o quelli di Castelvetrano da Matteo Messina Denaro, quand’anche fossero in maggioranza, avrebbero torto. Tant’è che numerosi Comuni vengono commissariati per infiltrazione mafiosa e non c’è maggioranza degli elettori che tenga.

Eppure, quel ‘gli elettori hanno sempre ragione’ nel Pd viene usato come un bastone nelle battaglie interne. Se un suo esponente, per motivi magari oggettivi o perché ha messo i valori etici al di sopra delle convenienze elettorali, perde le elezioni è spacciato. I suoi avversari interni lo fulminano all’istante, ‘quello non ha i voti neanche di sua moglie’, e lo liquidano in quattro e quattr’otto.

Beninteso, non stiamo qui a tessere le lodi degli impolitici. È evidente che in democrazia per governare una comunità, dalla più piccola alla più grande, occorre godere del consenso degli elettori e giustamente il politico che ne dispone è rispettato e considerato negli equilibri di partito. Il problema è in quel ‘sempre: gli elettori hanno sempre ragione. E no, non sempre. C’è un limite etico insuperabile nella caccia ai voti. La virtù del politico è saper conquistare la maggioranza degli elettori senza raccattare voti sporchi.

Ma tant’è, chi porta voti, quali che siano, è buono, chi no è un cretino politico e non serve. Purtroppo, nell’esasperazione della competizione interna,  questo convincimento diffuso nel Pd – e non solo in esso, intendiamoci – porta alcuni ad abbassare la guardia morale pur di conquistare galloni. Se poi il partito  gestisce il potere, specie se da lungo tempo, il rischio che qualche suo esponente ne utilizzi la leva per scambiare favori  con voti sporchi è alto. Per questo quanto più largo è il consenso e da quanto più tempo esso si conferma nelle urne, tanto più alta deve essere l’asticella della vigilanza morale.

E qui cade l’asino. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, uomo di riconosciuta, indefettibile rettitudine, magistrato ed ex piemme titolare di inchieste che portarono allo smantellamento di interi clan mafiosi a Bari, ha confessato senza giri di parole che i politici non dispongono degli strumenti idonei per fare indagini. Rischiano perciò di venire coinvolti in vicende scabrose a loro insaputa.

E meno male che ai politici non vengono attribuiti poteri analoghi a quelli della magistratura, c’è da aggiungere! Conoscendone la logica, qualora essi potessero svolgere indagini alla stregua dei piemme, sarebbe un massacro quotidiano. La soglia che separa la democrazia dalle democratura sarebbe superata all’istante. È la magistratura indipendente la garanzia del corretto svolgimento della dialettica democratica. Solo che poi la politica deve saperla ascoltare senza girarsi dall’altra parte per non vedere.

Tornando al Pd.  Non è la stessa cosa che un’indagine giudiziaria evidenzi gravi responsabilità di quadri politici del Pd o di una formazione della destra. L’elettorato della destra egemonizzato per un quarto di secolo da Berlusconi, campione della delegittimazione della magistratura, può assorbire con relativa nonchalance le inchieste che coinvolgono in questi giorni la ministra Santanché. Quello del Pd, no. La sinistra italiana da Berlinguer in poi  ha fatto della ‘questione morale’ un tratto distintivo della sua identità. A volte addirittura in surroga alla definizione di un progetto  politico. Leggere di ripetute vicende corruttive in cui sono invischiati dirigenti del partito destruttura le fondamenta dell’identità di partito. Ed è devastante per i suoi elettori.

Ma accidenti, è mai possibile che in tanti lustri di successi elettorali e di governo locale, a Bari come a Torino, i dirigenti del partito non abbiano mai avuto il sentore di qualche problema?

Lo avranno avuto, come no. Solo che se rompi con uno che porta voti e poi perdi le elezioni il cretino sei tu.