In un memorabile saggio del 2004, “Violenza, lutto e politica”, ora in “Vite Precarie”, la pensatrice americana individua nel trauma della perdita il motivo per un nuovo legame sociale. La dimensione politica è il luogo di una dipendenza reciproca, che contiene in sé il rischio della vulnerabilità e della perdita. Prestare attenzione a questa vulnerabilità significa “rivendicare soluzioni politiche e non militari, mentre negarla mediante un delirio – istituzionalizzato – di dominio non fa che alimentare gli strumenti della guerra”.
«Vorrei prendere in esame una precisa dimensione della vita politica relativa all’esposizione alla violenza e alla nostra complicità con essa, alla vulnerabilità rispetto alla perdita e al conseguente dovere del lutto. (…) Molti credono che il dolore ci riporti a una dimensione privata, ci confini nella solitudine e, in questo senso, sia depoliticizzante. Ma io credo che il dolore dia vita a un senso complesso di comunità politica, e sia in grado di fare ciò innanzitutto evidenziando quei legami e quelle relazioni necessari a teorizzare ogni forma di dipendenza fondamentale e di responsabilità etica. Se il mio destino non è né prima né dopo separabile dal tuo, allora questo “noi” è attraversato da una relazionalità cui non possiamo facilmente opporci; oppure, possiamo anche opporci a essa, ma a costo di negare ciò che di fondamentale c’è nella condizione sociale della nostra stessa formazione… la violenza è un contatto del peggiore tipo, un mezzo attraverso cui la vulnerabilità umana originaria si manifesta nella sua forma più terribile, e per il quale veniamo consegnati, senza alcun controllo, alla volontà altrui. Attraverso la violenza la vita stessa è obliterata dalla deliberata azione altrui. Esercitandola, continuiamo ad agire sull’altro, a essere un rischio per l’altro, a procurargli un danno, a minacciare di annientarlo. In un certo senso, viviamo tutti questa particolare vulnerabilità, che è vulnerabilità verso l’altro che è parte della nostra vita corporea, vulnerabilità a essere improvvisamente convocati da un altrove di cui non possiamo appropriarci. La vulnerabilità è fortemente esacerbata in certe condizioni politiche e sociali, soprattutto se la violenza diventa una modalità dell’esistere e le possibilità di autodifesa sono ridotte. Prestare attenzione a questa vulnerabilità significa forse rivendicare soluzioni politiche e non militari, mentre negarla mediante un delirio di dominio (un delirio istituzionalizzato di dominio) non fa che alimentare gli strumenti della guerra. Non possiamo, tuttavia, trascurare la vulnerabilità. Dobbiamo prestarle ascolto, esserle prossimi, proprio perché cominciamo a riflettere sui possibili esiti di una politica che prenda le mosse dalla vulnerabilità del corpo, in una situazione nella quale noi stessi possiamo essere sconfitti, oppure perdere gli altri.»
Judith Butler, Vite Precarie.