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La sinistra e il Trumpismo

by Bruno Gravagnuolo
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Una cosa l’abbiamo capita dentro la seconda puntata di “Inchieste da fermo”, il format in prima serata di Federico Rampini in onda il mercoledì su la 7, che parlava stavolta di Trumpismo, spaziando da Musk a Taylor Swift, con contorno in studio di studenti universitari a Bologna. Eccola. I workers sia ben pagati che precari non istruiti votano oggi Trump. Il ceto medio alto high class e intellettuale, l’impresa digitale e i suoi servizi più le minoranze etniche, votano dem. Forse è schematico. E però se pensiamo alla morfologia di tanto populismo odierno sembra che le cose stiano proprio così.

La sinistra è infatti diventata – non solo negli Usa – ormai liberal, con radicalità woke e corretta, basata sui diritti. Sinistra dei valori, insomma, di cui avemmo anche da noi qui Veltroniana esperienza. E invece dall’altro lato, abbiamo la destra sociale risentita e popolare. Che difende il suo lavoro, protezioni, industria localizzata e tradizioni. E si oppone agli immigrati, che riducono il costo del lavoro.

Vero è che negli USA il 60 per cento dei votanti non ha laurea. E che il Trumpismo affonda le sue radici in quello che una volta era il blocco sociale kennediano e di welfare europeo: operaio e ceto medio impoverito. Ebbene. Non è che gli operai e i lavoranti flex non esistano più. In Occidente. Anzi sono aumentati. Parte sono zoccolo duro e parte pianeta fluido atomizzato. E però questa morfologia sociale l’ha conquistata e occupata oggi ovunque la destra populista. Laddove la sinistra si è viceversa molto dedicata ai diritti, agli stili di vita, al differenzialismo femminista e di gruppi etnici. Il che ha generato una frattura ideologica e culturale, tra progressismo libertario (misto a narcisismo delle élites, cosmopolita) e risentimento dei subalterni, che si aggrappa al mito nazionale Usa e alla comunità stabile local, e non global.

Bene. Se ciò è vero come mai è accaduto? Certo l’impero global dem. I media. La conquista dei mercati e l’osmosi economica che con l’impero unilaterale ha generato guerre e contraccolpi di civiltà, come fin dal 1993 scriveva Hungtington contro le idee liberali del suo allievo Fukuyama, il Clash of Civilisation.

Ma c’è dell’altro su cui urge riflettere. E cioè sulla riconversione capitalistica mercatista e mondialista della sinistra dopo il 1989. Con un fenomeno di cooptazione sistemica delle sue élites nel blocco economico avversario, fino a divenirne mandataria. Volto umano e amministratrice. In Italia lo abbiamo visto con il Pd almeno fino a oggi, ma il fenomeno è mondiale appunto. Un gigantesco processo di decapitazione del blocco sociale di sinistra – rimodellato dal mutamento molecolare di classe – e cooptazione dei suoi ceti dirigenti nel capitalismo Usa first. Di cui tali gruppi dirigenti hanno inseguito da embedded la geopolitica. Sia pure dentro l’ambito europeo e ovviamente al top in America. Del resto lo vediamo in Italia. Dove il primato del voto operaio è andato prima alla Lega, poi ai 5Stelle e infine ai post fascisti. Per colpa operaia oppure di arretratezza culturale come si sente dire dai liberali di sinistra? Oppure ancora per il fatto che la sinistra o “ditta” cambiò sua ragione sociale e valori nel segno di un ripudio post ideologico e post materiale della sua natura? Appunto diritti civili e stili di vita? Noi crediamo fermamente che la risposta sia la seconda delle due. Ma non nel senso banale del tradimento. Piuttosto da parte della sinistra del fare di necessità falsa virtù. Nel quadro di grandi processi economici e storici. E cioè. Iperrealismo ideologico e decapitazione di sé stessa. Già Gramsci infatti nei Quaderni anni ‘30 ne parlava, nel trattar di trasformismo e persino di fascismo modernista: processo chimico di sussunzione delle élites dentro la crisi organica del capitalismo che muta e rompe gli argini nazionali risucchiando a sé i gruppi dirigenti avversari. Statici oppure subalterni. Incapaci di ripensare e di riorganizzare la loro funzione storica emancipativa.

Ed ecco allora in campo la destra populista, che cavalca ed egemonizza la rabbia dei non rappresentati o traditi e abbandonati. Gli under dogs. Non chiederemmo mai a Rampini, tipico esponente liberal nonché fermo atlantista, di farci capire tutto questo. Sarebbe incongruo. Però qualche spunto c’è stato nella seconda puntata del suo “Inchieste da fermo”. Peccato che ormai con i partiti liquidi non vi siano più luoghi e spazi deputati per parlare seriamente di tutte queste cose.