Confesso di essere molto frastornata dalle vicende mediatiche che hanno visto protagonisti la Lucarelli e i Ferragnez prima e la ristoratrice di Lodi, morta suicida, poi. Quello che mi colpisce non sono le vicende in sé, pur drammatiche, quanto piuttosto la facilità con cui si passa dall’esaltazione di gesti intesi inizialmente come positivi e filantropici alle accuse violente e minacciose. Possibile che chi legge i social non abbia la lucidità di informarsi e giudicare con il proprio raziocinio e il proprio senso dell’equilibrio? Forse perché l’immediata reazione a caldo è quello che la rete vuole, è quello che fa ritenere colui che scrive come il dito più veloce del Far West? Mi sento davvero fuori posto in questa realtà comunicativa che non riflette, non usa le parole attribuendo loro il giusto peso e l’opportuna forza. Senza contare che, a meno di inevitabili strascichi giudiziari, tra qualche giorno tutte queste sporche vicende avranno perso la loro vitalità e i protagonisti torneranno ad essere leoni di tastiera, l’unica a perdere sarà stata quella signora, priva forse degli strumenti necessari per difendersi.
Lo abbiamo detto più volte, le parole sono pietre, e quelle scagliate dagli odiatori mediatici, volti inesistenti ma mani rapaci, lo sono ancora di più perché si nascondono e gettano veleno, inchiostro nero su chi è stato più abile nel mondo dei media o ha cercato di esserlo. Nicola Brunialti che da tempo si dedica esclusivamente alla scrittura per ragazzi ha detto su Facebook: «Ai miei piccoli lettori insegno che le parole sono come il dentifricio. Una volta spremuto, il dentifricio non può tornare nel tubetto. Così le parole, una volta uscite, non possono tornare nella bocca. Per questo bisogna stare attenti a quello che si dice. E valutarne le conseguenze. Sempre. I bambini lo capiscono. Gli adulti, un po’ meno».
Tutta la vicenda di questi giorni, presa nel suo complesso mi fa orrore. Spegnere i social si può, sottrarsi ai commenti, spesso sgrammaticati, degli utenti è quasi una necessità. Ma chi vi resta, i giovani che vivono sulle piattaforme virtuali, come devono difendersi? Anzi, diciamo meglio, possono difendersi? La comunità che si crea sui social fa sentire parte di un gruppo che agisce nello stesso modo, partecipa della stessa attività, apprezza gli influencer perché pubblicizzano un prodotto che tutti poi avranno. Di fatto ha sostituito ormai da tempo altre comunità: la famiglia, la scuola, il partito, l’oratorio. Solo se gli adulti rimarcano il loro ruolo, non omologandosi alla comunità dei loro figli, forse il rischio della dipendenza può ridimensionarsi. Se un adolescente non riconosce la differenza tra un adulto, sia esso docente o genitore, e un qualunque fruitore delle piattaforme, non si esce dal virtuale. Se a volte è difficile distinguere madre e figlia perché vestono allo stesso modo, sono rifatte negli stessi punti, usano in maniera spasmodica il cellulare, fanno foto su Instagram senza poi ricordare qual è il luogo visto, come possiamo pretendere che i giovani, specie nella fase formativa adolescenziale, abbiano altri modelli? Gli odiatori della vicenda di cronaca cui abbiamo accennato sono di tutte le età, di entrami i sessi, hanno tutti usato parole del campo semantico dell’odio. Il pensiero razionale che dovrebbe essere degli adulti è lento, faticoso, guidato da regole precise, sequenziale, tutti aggettivi che non si confanno alla community il cui procedere è veloce, intuitivo, associativo. Mi sembra di parlare come quella coppia di anziani pupazzi del Muppet show che su un palco posto in alto erano soliti commentare negativamente i contenuti dello spettacolo. Purtroppo ora non esiste più differenza tra spettacolo e realtà, viviamo in una bolla comunicativa dove verità e finzione sono intercambiabili. Facciamo attenzione ai nostri ragazzi. Ovviamente non li si può far vivere fuori del loro contesto perché si rischia la marginalizzazione, ma mostriamo loro che un altro mondo esiste e che deve servirsi dei social non esserne fagocitato.